Dal fondo di un lungo corridoio, la cinepresa inquadra un ragazzo che si esercita alla batteria. Il suo occhio, e con lui i nostri, si avvicina lentamente ed entra nella stanza. Dai poster, appiccicati alle pareti, lo guardano i suoi miti: Buddy Rich e Joe Jones. Ma, ad ascoltarlo arriva all’improvviso anche Terence Fletcher, temutissimo insegnante della Shaffer, il conservatorio di Manhattan, dove il giovane protagonista studia, nonché croce e delizia di tutti gli aspiranti musicisti, che ambiscono ad entrare a far parte della sua orchestra. Inizia così il film “Whiplash”, opera numero due, firmata dal giovane (classe 1985) cineasta americano Damien Chazelle, e fresco vincitore di ben tre premi oscar: all’attore non protagonista, al sonoro e al montaggio.
Il film, il cui titolo si riferisce al celebre brano scritto da Hank Levy e registrato da Don Ellis, è dunque la storia di un giovane ragazzo (l’efficace Miles Teller), alle prese col sogno di diventare il più grande batterista jazz della sua generazione. Dovrà, però, scontrarsi (in tutti i sensi), con il suo insegnante (un perfetto J.K Simmons, già musa dei “terribili” fratelli Coen), che finirà per spingerlo oltre ogni limite. «Ero lì per spingere le persone oltre le loro aspettative: era quella la mia assoluta necessità», dirà in una sequenza del film, perché «Non esistono in nessuna lingua del mondo due parole più pericolose di ‘bel lavoro’!».
E sì, ancora una volta, la storia dello sfigato di turno, il loser, che alla fine ce la fa. Ma la filmografia made in U.S.A, ci ha sempre regalato questo tipo di “perdenti”, vessati da sadici e omofobici insegnanti: da “Chorus Line” di Richard Attenborough, dove lo stronzo di turno era Michael Douglas, a “Saranno Famosi” di Alan Parker, dove il ruolo della megera toccava a Debbie Allen, fino alla serie tv “Glee” che ha spopolato tra i ragazzi negli ultimi anni, e che ha fatto dei looser la sua carta vincente.
E a tal proposito, mi permetto di dissentire totalmente con il saggista Goffredo Fofi, che ha definito il film “Una favola per gonzi di destra”, intravedendo, pur lodandone la fattura, il classico film americano, dove “uno su un milione ce la fa” e che tanto lo fanno arrabbiare. Forse perché gli sta troppo antipatica l’America e il suo modello “maggioritario e a tratti totalitario”. Ma se gonzo significa “il sognatore che spera di arrivare”, ebbene sì, caro Fofi, allora anche il sottoscritto è un gonzo, pur non essendo di destra. Alla fine, siamo tutti un po’ looser.
Ma amo il buon cinema, quello fatto bene. E “Whiplash” è un film tecnicamente perfetto. Almeno per quattro motivi: la regia inappuntabile, con le inquadrature che “danzano” all’unisono con la musica; la colonna sonora, appunto, trascinante e “all jazz”; la fotografia, dagli sfavillanti colori, con intensi verdi, blu e rossi, che tanto ricordano i quadri di Edward Hopper; il montaggio, perfettamente amalgamato alla colonna sonora, superbo e vigoroso, che dà il meglio di sé nei 10 minuti mozzafiato, della sequenza finale. Giustamente premiato con l’oscar.