Un film che contiene la straordinaria forza di urlare il diritto di essere liberi e di non voler appartenere a nessuno. “Viviane”, uscito nel 2014 ma che ha pressoché disertato le sale cinematografiche italiane, è una pellicola israeliana giustamente candidata come miglior film straniero agli Oscar del 2015.
Ambientato in Israele e girato in un solo claustrofobico ambiente, una spoglia e sgarrupata aula di tribunale (da qui la definizione di “courtroom drama”), è la storia di Viviane (Ronit Elkabetz, anche regista e sceneggiatrice a quattro mani con suo fratello Shlomi), di professione parrucchiera, che chiede il divorzio da suo marito Elisha (Simon Abkarian), dopo aver lasciato il tetto coniugale. Non chiede soldi Viviane, ma solo la sua libertà. Il problema è che siamo in una nazione dove il matrimonio così come il divorzio è un affaire solo religioso e tragicamente maschilista: solo l’uomo, infatti, può concederlo mediante la pantomima del lasciar cascare nelle mani della donna il Gett, un foglio contenente il consenso, pronunciando le assurde parole: «Da adesso sei promessa a qualunque uomo”. Come un cane che cambia padrone o come un biglietto di moneta che passa dal compratore al venditore.
Un processo che dura anni, tra molteplici rinvii e nuove udienze, perché il marito non ha alcuna intenzione di concedere il divorzio: nemmeno con la forza i rabbini che presenziano la corte riescono a smuovere l’uomo dalla sua decisione. Che è in preda all’orgoglio di essere stato e di restare l’unico uomo di sua moglie, nonostante durante il film emergano chiare lontananze caratteriali e fisiche tra i due coniugi. Atteggiamento questo, che porta a sfiancare Viviane, che lentamente cade nella disperazione e nell’abisso della via senza uscita: la sua dignità di donna libera ed emancipata (e si vede anche nei suoi continui cambi d’abbigliamento: dal sommesso nero delle prime inquadrature ai colori sgargianti di quelle successive), crolla miseramente fino alla supplica e all’amaro accordo finale.
La sceneggiatura è densa e vischiosa come l’olio per i motori delle automobili: difficile che scivoli addosso velocemente. Straordinaria l’interprete, che buca lo schermo per il suo fascino e l’eleganza dei suoi gesti (memorabile la scena mentre si slega i lunghi capelli), graffia l’anima dello spettatore più frigido con una sequenza di sguardi degni della grande Magnani (alla quale durante le proiezioni al festival di Cannes della scorsa edizione i critici l’avevano giustamente accostata), dove il culmine è raggiunto da quelle lacrime di rabbia, più che di disperazione, che le scendono in silenzio, o dalla drammatica scena, sul finale, quando la donna si aggrappa disperatamente al banco dei giudici chiedendo di poter essere solo ascoltata.
Sequenze che non possono lasciare indifferenti: qui siamo nel Cinema maiuscolo e si possono sprecare i riferimenti: dal bergmaniano “Scene da un matrimonio” a “La parola ai giurati”, fino al nostrano “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, dove preso di mira è il surreale articolo del cosiddetto codice d’onore, mentre qui è un sistema intero. Un film che merita di essere recuperato.