Può un libro scritto vent’anni fa avere la freschezza e la modernità tanto da sembrare appena pubblicato? Sì, se si tratta di un capolavoro come “Pastorale americana” di Philip Roth, premio Pulitzer 1997. Un romanzo che per oscure ragioni è rimasto – da allora – a prendere solo la polvere nella libreria di chi scrive. Un romanzo che urlava a gran voce di essere aperto, sfogliato, letto. Una scrittura dotata di precisione chirurgica, rabbiosa, tormentata ma anche ironica, intinta nel tipico umorismo ebraico: «Dopo tutto, quello che chiamano “il passato” non è che un frammento di un frammento del passato. È il passato inesploso: non si ripesca nulla, proprio nulla. È nostalgia. Cazzate».
L’autore spia dal buco della serratura le stanze e le coscienze di una tipica famiglia americana, e lo fa pennellando sullo sfondo – e nemmeno tanto in silenzio – la storia con la esse maiuscola, dai gloriosi e bui anni ’50 fino agli anni ’80, quelli dell’edonismo di Reagan. Non a caso. Un interno familiare – quello dei Levov – che lentamente implode in tutta la sua drammaticità: il padre – ebreo, un elemento da non sottovalutare per il districarsi della trama – Seymour detto “lo Svedese”, biondissimo, bellissimo, campione sportivo adorato dalle folle e spasimato dalle donne, eccellente imprenditore, titolare di una fabbrica di guanti ereditata dal padre ; sua moglie Dawn, bellissima pure lei, ex Miss New Jersey, dal cuore di ghiaccio ma determinata a rincorrere il successo; la loro figlia Merry, incarnazione della rabbia di una generazione pacifista e antirazzista.
Intorno a loro tanti personaggi e un intera società che desidera ardentemente di brillare di luce riflessa attraverso questa “famiglia perfetta”. La famiglia di successo del Sogno Americano. Ma la perfezione non esiste. E ad esplodere, oltre alla vita di Seymour, sarà una bomba – vera e che provocherà delle vittime – per mano di quella figlia, troppo amata, «che lo sbalza dalla tanto desiderata “Pastorale americana” e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America».
Merry diventa una latitante ricercata in tutto il Paese e da quel momento comincia l’inferno personale dell’impreparato Svedese. «Ma chi è pronto ad affrontare l’impossibile che sta per verificarsi? Chi è pronto ad affrontare la tragedia e l’incomprensibilità del dolore? Nessuno: la tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia, cioè la tragedia di tutti». La famiglia perfetta così si frantuma, in un vortice di disperazione, di milioni di quesiti che resteranno senza risposta e che consumeranno – nel vero senso della parola – il protagonista, che si vedrà tradito anche da sua moglie che non reggerà il peso del confronto con l’adorata figlia-assassina. Ma Seymour è un padre, e i padri devono perdonare i propri figli. Un romanzo che narra senza spiegare e che si chiude, a tal proposito, con una serie di domande: «Ma cos’ha la loro vita che non va? Cosa diavolo c’è di meno riprovevole della vita dei Levov?». Leggete “Pastorale americana” se non lo avete fatto, e datevi da soli le risposte.