Parlare di Pier Paolo Pasolini è come attraversare un campo minato: si è già detto tutto, forse troppo. O forse troppo poco? Ecco quindi che l’insolita idea su cui si basa lo spettacolo teatrale “Tutto il mio folle amore – Pier Paolo Pasolini”, scritto da Michele Ciavarella e diretto da Pietro Caramia, è vincente. Intanto per aver fatto “rinascere” Pasolini in un limbo originale e terrificante al tempo stesso: un cumulo di macerie. Macerie di un mondo che l’intellettuale aveva intuito, precorrendo i tempi, e che in qualche modo ci consegna in tutta la sua pesantezza. Un mondo dove libertà, identità, uguaglianza e fratellanza sono solo concetti scritti su carta.
Uno spettacolo denso di simboli – canzoni, interpretate con intensità dallo stesso Ciavarella, lanterne e croci comprese – dove i tre bravi attori (a completare il cast, oltre ai già citati Ciavarella e Caramia, Monica Veneziani), danno anima alle voci, soprattutto quelle tanto care, degli ultimi. Anello di congiunzione è lo stesso Pasolini, attraverso il racconto della sua infanzia, del difficile rapporto con il padre, dell’immenso amore per la madre, del rapporto “carnale” con la sua omosessualità, del suo essere poeta prima e intellettuale poi. Ed è un pugno allo stomaco, il suo j’accuse contro le stragi dei suoi anni e i rispettivi mandanti. Così come potente è il monologo di Caramia che interpreta Pasolini negli ultimi istanti di vita, “immerso nel suo stesso sangue, come un neonato che si affaccia al mondo”. Per rinascere, libero, nell’eternità.
C’è poi la voce di una prostituta (credibile l’interpretazione di Veneziani) che con “greve leggerezza” ci racconta l’emozionante incontro fortuito col poeta che, alla fine, le regalerà generosamente il suo paltò. Non mancano le voci, vere, di un’inconsolabile Moravia al funerale del collega e amico, e dei cronisti che annunciano quotidiani drammi, scegliendone, non a caso, un paio. Il primo è il naufragio di Lampedusa, dove morirono 368 migranti, raccontato da una madre profuga che, nell’attimo estremo, dona la vita al suo piccolo sapendo che il destino gliela strapperà subito dopo. Il secondo è il suicidio di Simone, ventunenne omosessuale vittima di omofobia, che nel 2013 si lanciò nel vuoto da un palazzo di Roma. Ed è proprio al giovane Simone che Ciavarella regala, interpretandolo, il momento più poetico e straziante dello spettacolo. Pochi minuti che fanno calare il silenzio nelle coscienze di tutti. Un silenzio che, senza scampo, accompagna lo spettatore dopo il catartico finale all’uscita del teatro.
(visto all’Auditorium Bianco Manghisi – Teatro dei Cappuccini di Monopoli)