Chi l’avrebbe mai immaginato che gli ultimi due anni di vita di Oscar Wilde sarebbero stati tanto penosi? Il dandy più famoso e amato della letteratura occidentale, nato a Dublino nel 1854 in una famiglia di elevato benessere, ebbe l’anima e la carriera artistica tranciata da un assurdo processo penale contro la sua dichiarata omosessualità. Sotto il falso nome di Sebastian Melmoth, Oscar Wilde morì nel 1900 esiliato e umiliato, dopo aver raggiunto il successo grazie al suo eccezionale talento letterario. Alla faccia dell’Inghilterra civile, ricca e colta che si vanta di essere difensora di libertà e democrazia! In quel periodo di bassissima morale pubblica 75.000 gay furono perseguitati, come accade oggi nei paesi islamici più reazionari e solamente da poco gli inglesi si sono ravveduti verso un giovane tanto elevato nell’arte drammatica.
Rupert Everett, attore molto bravo e sublime icona gay, ha concepito, interpretato e diretto un film che indaga nella storia privata di Wilde per denunciare tutti coloro che gli trasformarono il destino in una tragedia senza senso. “Il principe felice” è uno dei tanti racconti che il raffinatissimo Oscar ideò quando era ancora capace di creare bellezza con le parole, un racconto che il regista Everett sentiva recitato da sua madre e che ha finalmente trasformato nel filo conduttore di un film molto tenero, molto crudo, molto poetico, molto irritante, molto politico. Oscar Wilde cercò costantemente il piacere fisico come se fosse l’unico piacere per il quale rischiare la vita stessa. Cibo, alcolici, droghe, corpi maschili furono anteposti a tutto, alla famiglia, al suo lavoro teatrale, agli amici, alla salute. Il suo dandismo fu esagerato, senza cautele, né limiti. Oscar cercò il lusso per mettersi alla massima distanza dalla volgarità, ma per vivere nel lusso bisognava avere o guadagnare molti soldi e Oscar non seppe farlo. Volle distruggersi nel piacere, senza buonsenso e ragionevolezza e distrusse anche gli argini costruiti da chi voleva aiutarlo o salvarlo. Grazie a Dio ebbe una dignitosa sepoltura e oggi il suo ricordo riaffiora dalla profondità dell’inferno dei sodomiti. In tutto il film l’amor socratico impatta sui personaggi come un reato; il sesso omosessuale si compra e quando finiscono i soldi diventa pericoloso pretendere l’intimità gratuita. Gli uomini, anche sposati, non devono tradire con altre donne; possono vendere il proprio corpo ad altri uomini, ma l’importante è farsi pagare.
Il regista non ha costruito la biografia di un raffinato scrittore; ha sceneggiato l’insostenibile tentativo di un omosessuale, perseguitato dai moralisti, di amare secondo la propria natura. È strano, il film non commuove mai. La parola chiave è perdono. Tutti i personaggi cercano un perdono o danno un perdono, ma a perdonare sono solamente le donne. Le mamme, le mogli, le amiche soccorrono i gay. Gli uomini (giudici, cittadini, politici) sono nella stragrande maggioranza, omofobi. Rupert Everett, che ha interpretato Wilde con durezza e amarezza, non lo ha voluto rievocare come un paladino dell’amore omosessuale; anzi ne ha descritta la deriva esistenziale, senza mentire. L’inimitabile Oscar seppe divertire gli altri con l’arte, amare se stesso con i vizi, e perfino salvare la propria anima senza pentirsi.
Il film è certamente da vedere per gli attori superiori alla media (Colin Firth, Colin Morgan, Edwin Thomas, Emily Watson, Tom Wilkinson), per le musica allettanti, per i costumi raffinatissimi, per le locazioni pittoriche