Un film di Marco Bellocchio con Roberto Herlitzka, Lidiya Liberman, Fausto Russo Alesi, Filippo Timi.
Quando si apre per più di 3 volte il frigorifero prima di iniziare la recensione di un film d’autore vuol dire che il giornalista non ha visto con chiarezza le indiscusse qualità dell’opera. Inoltre se il regista ‘conta’ nell’ambiente ed è considerato un maestro nei Festival europei, il giornalista teme di travisare qualcosa e le sue parole non devono, per nessun motivo, fare danni morali. Nell’industria cinematografica non si arriva a gestire un set oltre l’età della pensione sociale, se non si hanno meriti oggettivi. Marco Bellocchio, ha 74 anni, è un regista che ottiene sempre ottimi risultati (ma non sbalordisce quasi mai). È un artista ‘impegnato’, politicizzato, amico di Nanni Moretti e di Felice Lauadadio. Bellocchio sceglie soggetti ‘seccanti’ per il qualunquista medio che a cinema vuol divertirsi e risponde al cellulare durante la proiezione: religione, terrorismo, politica, giornalismo ecc. sono guai seri che richiedono sceneggiature ‘pesanti’.
“Sangue del mio sangue” presentato a Venezia 2015 è un titolo di accigliata severità, una metafora carica di agitazione; oppure Bellocchio, più onestamente, lo ha riferito alla sua famiglia, perché 3 ruoli importanti sono assegnati ai suoi figli: Alberto Bellocchio (Il cardinal Federico Mai), Elena Bellocchio (Elena), Pier Giorgio Bellocchio (Federico). Elena e Alberto recitano solamente con il padre; Pier Giorgio ha fatto qualcosa in più con altri, ma sembra che non sia bastato perché il personaggio tragico di Federico ha le stesse espressioni di un tavolo di biliardo.
Questo film è composto da due storie che non si fondono, ma sono accadute nello stesso posto (il paese natio del regista). La prima storia schiaccia la nostra coscienza: è uno dei tanti assurdi casi di stregoneria gentilmente offerti dalla chiesa cattolica dopo la pubblicazione agli inizi del ‘500 del Malleus Malleficarum (Il martello delle streghe). Una suora che avrebbe potuto vincere ‘Miss Mondo’ seduce un prete; questi prima se la gode per bene, poi si uccide. Lei finisce torturata e murata viva. La bellissima location è il convento di San Colombano di Bobbio, molti secoli fa uno dei luoghi di conservazione del sapere più prestigiosi al mondo (tipo Monte Cassino).
La seconda storia si svolge in questa Italia di merda. Un meraviglioso rudere secentesco, abbandonato come tanti altri sparsi da nord a sud, sta per essere venduto a un miliardario russo che vuol farci un albergo extralusso. Ma un vecchio nobile, colto e non puttaniere, decide di opporsi…
La descrizione della società contemporanea di Bellocchio è ferocissima, ma non è da meno il giudizio sprezzante sui fetidi soprusi della Inquisizione. I domenicani, esaltati e crudeli, hanno lasciato il posto a truffatori in libertà, a compratori stranieri senza cultura rinascimentale, a finti invalidi, mogli svergognate e a una massoneria da circolo ricreativo. (Bellocchio ha sacrificato la completezza, dimenticando i balli di gruppo, i raccomandati degli assessori, i vedovi col Viagra, le scommesse sulle partite di calcio; in compenso ha riproposto gli alpini con i loro cori straziatesticoli).
In questa giornata di settembre troppo afosa mi chiedo: a chi può piacere questo film? Certamente a chi odia lo strapotere della religione sugli uomini, a chi vorrebbe salvare o difendere la bellezza dell’Italia, a chi crede nella ragione e nella giustizia. Speriamo che bastino a far fare buoni incassi agli esercenti, altrimenti…
Herlitza è un semidio della recitazione. Vale quanto Cristiano Ronaldo nel Real Madrid. Ultimamente è lui a dare il valore aggiunto ai film di Bellocchio. L’attore è diventato uno scheletro storto che percuote più di mille manganelli; speriamo che non muoia mai, tanto non dà fastidio a nessuno (sessualmente parlando). Attenzione! Il dialogo tra Toni Bertorelli (Il dentista Cavanna) e Roberto Herlitzka (Il conte) è uno strepitoso 5 minuti di cinema che vale un applauso da stadio. L’interpretazione di Fausto Russo Alesi (Cacciapuoti) è sufficiente. Da lui non si sente tutta la marcescenza morale di una figura religiosa opprimente ed odiosa. Alba Rohrwacher e Filippo Timi sono come quelle caramelle che provocano la salivazione, ma non nutrono. Infine il paesaggio antropico: Il ponte Gobbo sul Trebbia ha ricevuto in dono da Bellocchio un’inquadratura dal basso mai avuta prima e ogni volta in questo film esso appare splendido, divino. Le acque ruscellanti chiare e fresche dovrebbero simboleggiare un’Italia pulita, che però non esiste.