di Luciano Aprile
Considero le recensioni dei film un’arma a doppio taglio: quando sono scritte con sensibilità e rispetto del ‘testo’, arricchiscono la mia visione; quando svelano la trama io le aborrisco. Per questo, onde evitare il rischio, mi tengo lontano da loro come dalla peste, fino a che non ho visto personalmente il film. Per cui non leggete questa recensione prima di aver visto il film, anche se proverò a farla senza svelare niente della trama: come del resto ha fatto sapientemente il trailer, cosa che non sempre accade.
Uno dei piaceri insiti nella visione di un film è la scoperta della ‘trama’: trama che una volta si srotolava, come qualcosa di lineare, in senso logico e cronologico, rispettosa delle regole aristoteliche. Da un certo momento in poi qualcosa è cambiato ed il cinema ha cominciato a sparigliare le carte, a sbriciolare la trama dentro un puzzle di schegge, frammenti, ricordi, sogni, fantasie, affidando alla mente dello spettatore il compito progressivo di ricomporre il tutto (quello che Deleuze ha definito il cinema come ‘immagine-tempo’).
Il precedente film di questo regista, “Frank” aveva come protagonista un giovane cantante, leader di un gruppo musicale indipendente, il quale indossa,sempre, sia sulla scena che nella vita, una maschera, in realtà una testa integrale che copre il suo volto per nove decimi del film: la personalità, l’identità (anche dell’attore che lo interpreta) sono dissimulate, oscurate per buona parte del racconto come si volesse spingere lo spettatore a collocarsi nella testa del protagonista, nel suo mondo interiore fatto di creatività ma anche di stranezze patologiche.
In questo film, “Room”, siamo appunto in una ‘stanza’, che però è anche un mondo, un microcosmo che si espande a seconda dello sguardo nel quale siamo invitati a calarci. Tutti gli attributi, o per meglio dire le metafore, del dispositivo-cinema sono contenuti in quella stanza: la soglia, la cornice, la finestra e lo specchio. Tutte queste cose è lo schermo, e molte di queste griglie ermeneutiche sono presenti in questo film, talvolta raddoppiate da un altro schermo come ad esempio un televisore.
C’è anche un libro “Alice’s Adventures in Wonderland” poggiato sull’unico piccolo tavolo: e anch’esso dischiude un mondo. E’ una ‘marca’ per decifrare la storia, un indizio, un chiavistello per aprire il ‘ripostiglio’ dei misteri rinserrato in quel piccolo microcosmo. Altri film hanno raccontato la claustrofobia anche in modo geometrico: mi vengono in mente ‘Panic Room ‘ di David Fincher o “Cube” di Vincenzo Natali, solo per citarne un paio. Qui però viene alla mente un romanzo inglese del 1884, “Flatlandia” (Edwin Abbott) in cui è immaginato un mondo a 2 sole dimensioni i cui luoghi e personaggi non hanno spessore né profondità e i cui protagonisti, chiusi come sono nella loro angusta bidimensionalità semplicemente non sanno né vedere né soprattutto immaginare l’esistenza della terza dimensione, con effetti ovviamente grotteschi e patetici. Qui siamo in un universo, interiore ed esteriore, che non può essere compreso da chi non concepisca il fuori del dentro, la cornice del quadro, l’involucro di uno spazio vuoto. La porta che aprirebbe al mondo è invalicabile, lo specchio e lo schermo televisivo, dentro lo spazio abitato, da una madre e da un bimbo, ci sono ma rimandano tautologicamente all’indecidibilità ontologica fra vero e falso, fra realtà e finzione in cui siamo ingabbiati (loro e noi). Come quando siamo al cinema, appunto. La finestra c’è e non c’è, perché è ‘solo’ un lucernario, è solo luce dall’alto, senza paesaggio, senza ‘mondo’. C’è l’armadio, a complicare il paesaggio ‘domestico’ in un gioco di scatole o di matrioske che raddoppia, in pochi decimetri quadrati, la claustrofobia circostante. Si è dentro e si è fuori senza uscire dal ‘dentro’ della stanza. Siamo in gabbia. Dove andrà a finire questo film? Come faremo a salvarci da questa oppressione lugubre e angosciante?
C’è la madre (Brie Larson, attrice ventitreenne premiata con l’oscar pochi giorni fa) e c’è il bambino (eccezionale anche lui). C’è un mondo dunque. Siamo nel ventre materno, e anche se manca l’aria, c’è il suo liquido amniotico, la sua cura, la sua tenacia e la sua pazienza, che si occupano di trasmettere il respiro. Un ennesimo film sulla madre dunque? Sì, ma né retorico né ‘buonista’: c’è invece il conflitto inevitabile di due mondi, c’è lo scontro non tanto fra le generazioni, ma fra due esseri, perchè qui il conflitto è esistenziale. Lo stesso piccolo mondo percepito in due modi non sovrapponibili, c’è ‘l’altro’ come ‘inferno’ ma anche come ragione di vita. C’è insomma la dialettica umana, troppo umana, del negativo. E c’è spazio intelligente anche per una demolizione spietata di tutta la retorica sulla famiglia normale, sul bisogno di paternità ‘naturale’, sulla ineluttabilità del triangolo edipico.
Non è un film sulla claustrofobia. Non è un ‘Kammerspiel’: non c’è solo la stanza. Anzi, più che sugli spazi questo è un film sul tempo: sulle sue dilatazioni e sulle sue compressioni. Sulla sua ineluttabilità. Nietzsche diceva che la ‘volontà di potenza’ si deve esprimere soprattutto con il ‘così volli che fosse’, cioè con l’accettazione di tutto ciò che ci pesa addosso, del nostro intero passato, che non possiamo più correggere ma solo ‘amare’ (amor fati). Un film sul ‘peso più grande’?
Questo film si chiude come fosse un cerchio (è questo forse l’ eterno ritorno? L’impotenza a liberarsi dalle spire di un passato che fa male?). Il film si chiude con un ‘ritorno a casa’ amaro, struggente, delicatissimo: con la voce del bambino, dolce e non appesantita da nessun rancore, a dettarci le regole per tornare a vivere. Salutando uno per uno, come compagni di vita, tutti gli umili oggetti della sua esigua (ormai solo un ricordo) costellazione infantile. Ma salutandoli come all’inizio, quando tutto, almeno per noi spettatori, è cominciato, e quando di quella stanza, non sapevamo nulla.
Quando il cinema fa questo, farci stare dentro la testa e il cuore di quelli che stanno oltre lo schermo o ‘davanti’ ai nostri occhi, ha realizzato la sua missione più alta.