“Revenant – Redivivo”, un gradevole polpettone

Di Dino Cassone

Di Dino Cassone

Dimenticate la genialità surreale e l’originale struttura di “Birdman”, il suo penultimo film che ha fatto man bassa di critiche positive e sbancato alla scorsa notte degli Oscar. Questa volta, Alejandro González Iñárritu, probabilmente forte anche dei consensi e della manica larga dei produttori (e che guardano con immensa gioia anche le 12 nomination ai prossimi Oscar di febbraio), ci ha confezionato il classico polpettone hollywoodiano. Ben confezionato, si badi bene.

In “Revenant-Redivivo” funziona tutto: gli splendidi e selvaggi paesaggi della Columbia Britannica e del Canada, fotografati con maestria, costumi perfetti e scenografie accuratamente ricostruite nei minimi dettagli. Una regia superba: bastano i primi minuti del film con le inquadrature strette, strettissime, sulle scene di combattimento tra gli indiani e i cacciatori di pelli, che non lasciano via di scampo né ai personaggi ammazzati né allo spettatore che è talmente vicino da poterne udire il sibilo delle frecce o delle pallottole, e addirittura l’odore del sangue che schizza in tutta quella carneficina.

Funziona come un sensuale collant su una gamba femminile lunga e ben tornita, la recitazione, maestosa di Leonardo Di Caprio, la cui bravura è sempre stata sotto gli occhi di chi scrive (dal lontanissimo “Buon compleanno Mr. Grape” di Lasse Hallström, sua prima candidatura agli Oscar) e dell’Accademy, anno dopo anno. Scommettiamo anche questa volta che pur essendo nominato il talentuoso e affascinate Leonardo non ce la farà nemmeno questa volta a vincere la statuetta, che comunque vada, sarebbe pur sempre riparatoria.

Eppure c’è un ma. Lungo i centocinquantasei minuti della pellicola, manca una storia originale. Già perché tutto, dalla prima all’ultima inquadratura è stato già visto. Ispirato alla storia vera di Hugh Glass, cacciatore di pelli che nel 1823, durante una spedizione nel Nord Dakota, lì dove nasce il Missouri, fuggendo a un attacco d’indiani primi e di un’orsa Grizzly dopo, è abbandonato al suo destino in fin di vita. Glass, però, non molla (“Non ho più paura di morire. Sono già morto”, sussurra), e grazie al suo coraggio e all’implacabile sete di vendetta nei confronti di un compagno di viaggio che gli ha ammazzato il figlio, in qualche modo si rimette in piedi e va all’inseguimento di quest’ultimo. Inseguimento che è un viaggio negli inferi della più ardua sopravvivenza del selvaggio West, dove l’aiuto “soprannaturale” della moglie (che bisbiglia una delle più belle frasi del film: “Perché nel mezzo di una tempesta, se guardi i rami di un albero, giureresti che stia per cadere. Ma se guardi il suo tronco ti accorgerai ti quanto sia stabile!”) e del figlio (molti i momenti onirici durante la narrazione che rallentano come un freno a mano tirato in piena corsa la già lunghissima durata), saranno per Glass fondamentali. Fino all’inevitabile compimento della vendetta (“Il mio cuore sanguina…la vendetta è nelle mani del creatore”, è lo slogan): i buoni vincono sempre. Che palle.

Dino Cassone