Nicola Di Ceglie
Segretario Generale Slc-Cgil Puglia
Care compagne e compagni delegati,
stimatissimi dirigenti, gentili ospiti della stampa, grazie per essere qui presenti fisicamente, nella sede di un sindacato glorioso che fin dalla sua costituzione è sempre stato il principale difensore dei diritti e della cultura del lavoro.
Quando ho iniziato a pensare a questa giornata mi sono chiesto se i congressi hanno ancora senso e valore, in un’epoca di comunicazioni fatte in tempo reale, a distanze pazzesche, con tecnologie virtuali. Questo rituale appartiene alle epoche passate e forse cadrà in disuso. Nel frattempo prendiamo quel che c’è di meglio in questa convocazione. Ci ritroviamo di persona, possiamo guardarci negli occhi, scrutarci, sentire le nostre voci reali, ma anche intuire che ci vogliamo bene, che ci sentiamo uniti nel perseguire obiettivi e valori autentici per noi e per le nostre famiglie.
Vorrei introdurre la mia relazione con la storia di una giovane vedova francese che da sola, nel ‘300, decide di sfidare in tribunale i banchieri fiorentini che l’avevano raggirata. Avesse avuto qualche altro cliente dalla sua parte, la si potrebbe chiamare la prima class action della storia, alla quale avrebbero fatto seguito, dopo 700 anni, quelle dei clienti di Lehman Brothers, di quelli di Bernie Madoff, degli obbligazionisti di Parmalat o di quelli del governo argentino. Purtroppo però la donna, Sybille de Cabris, era sola. Da quello che sappiamo, Sybille fu capace di autonomia di giudizio, tenacia di fronte ai banchieri che le avevano sottratto il patrimonio, spirito imprenditoriale e coraggio. Trasferite sette secoli più tardi, le vicende drammatiche della sua vita potrebbero diventare la trama di una produzione hollywoodiana.
Dopo la morte prematura del suo giovane marito e dopo lunghe peripezie, Sybille diventa una giovane donna capitalista, il cui problema è trasferire il ricavato della sua vendita in Sicilia verso la Provenza. E’ qui che i banchieri entrano nella sua vita. I Buonaccorsi di Firenze prendono in consegna il denaro a Napoli e si impegnano, dietro commissione, a produrre una somma equivalente a chi presenti una lettera di credito da loro emessa presso la filiale della banca di Avignone. Ciò avrebbe evitato il pericoloso viaggio delle monete d’argento attraverso tutta l’Italia e la Costa Azzurra.
Il secondo dramma nelle vita di Sybille esplode però all’arrivo ad Avignone: in città non c’è più alcuna filiale dei Buonaccorsi. La banca era fallita e i banchieri erano scappati senza liquidare i clienti, un’esperienza oggi ben nota ma allora quasi incomprensibile. Come in questo secolo, gli uomini di finanza non avevano svolto a dovere il loro mestiere ma potevano prevalere sui clienti anche grazie a quelle che gli economisti chiamano “asimmetrie informative”, conoscevano circostanze che gli altri ignoravano, ad esempio sull’effettivo stato della loro impresa o dei mercati.
La nostra Sybille, non si arrende, intraprenderà una lunga sfida di dieci anni, affidando attraverso una denuncia contro i Buonaccorsi al tribunale della Mercanzia. Sarà una sfida giudiziaria lunga molti anni, dell’esito della loro battaglia legale non resta purtroppo traccia. Certo i grandi banchieri fiorentini si seppero difendere con ogni possibile argomento tecnico a loro disposizione. E se la loro opaca cavillosità oggi ricorda qualcosa, ci sarà pure un perché.
La storia è sempre una maestra di vita. In questo caso da una vicenda molto simile a quelle che sentiamo in cronaca, noi tutti impariamo che è meglio non fidarsi mai dei banchieri e della loro gestione del capitale accumulato. Ma se non avete il tempo di leggere il libro Dalle lacrime di Sybille, edito da Laterza, vi consiglio un altro modo per acuire la vostra vista. Andate a vedere The wolf of wall street, l’ultimo film di Martin Scorsese e dopo due ore di strapazzi morali da parte dell’ottimo attore Di Caprio tornerete a casa con la voglia matta di prendere a bastonate chi gioca crudelmente con il denaro altrui, invece di sostenere il lavoro reale e la ricchezza che esso produce.
La crisi recente deve essere letta nel contesto delle più importanti crisi finanziarie del passato, essa trova le sue cause scatenanti in almeno tre ordini di fattore: gli squilibri macroeconomici internazionali e la politica monetaria estremamente accomodante attuata nei primi anni 2000 dalla FED, che hanno favorito un aumento del credito e dell’indebitamento privato e alimentato, in molti paesi, una bolla immobiliare; il comportamento delle banche e degli altri intermediari che per massimizzare i profitti hanno fatto largo uso di modelli di business molto aggressivi, basati sulla cartolarizzazione dei crediti e sull’uso di strumenti finanziari innovativi e rischiosi; l’inadeguatezza dei sistemi di regolamentazione e vigilanza dei mercati finanziari, rivelatisi non in grado di limitare tale comportamento.
Il contagio dalla crisi finanziaria all’economia reale si è sviluppato con repentinità, intensità è simultaneità, dando luogo a una recessione mondiale, paragonabile alla Grande depressione degli anni trenta. La recessione è stata globale, coinvolgendo paesi avanzati e paesi emergenti, perché si è svolta in un quadro nuovo, di economia altamente integrata; essa ha colpito soprattutto l’industria e gli scambi commerciali. Le conseguenze della recessione si sono manifestate ovunque con un aumento della disoccupazione, una riduzione dell’inflazione, un peggioramento dei conti pubblici. Di fatto la recessione è risultata più grave nei paesi esportatori con forte presenza nel settore manifatturiero; di fatto, l’inevitabile peggioramento dei saldi di finanza pubblica indotto dalla crisi ha determinato gravi conseguenze sulla stabilità finanziaria dei paesi le cui condizioni di partenza erano più fragili. La crisi ha subito, quindi, una serie di evoluzioni: da crisi finanziaria e immobiliare è divenuta crisi industriale e del mercato del lavoro; da crisi americana si è fatta crisi mondiale; da crisi da debito privato si è mutata in crisi di debito pubblico.
L’impatto della crisi sull’Italia è stato devastante. Le prime analisi sembravano avvalorare l’ipotesi che l’Italia, rispetto ad altri paesi, potesse essere considerata al riparo dal contagio per la minor esposizione a quelli che al momento si presentavano come fattori specifici della crisi: la presenza di asset tossici nel sistema bancario e il grado di indebitamento delle famiglie. Come purtroppo sappiamo oggi, la realtà è stata diversa: la crisi ha rilevato molte facce, una di queste è stata la sua dimensione industriale e di commercio estero. Il colpo è stato duro per un’economia come quella italiana, in cui il peso del manifatturiero esportatore è molto forte. Così, la perdita di PIL è risultata fra le più consistenti tra tutti i paesi avanzati. I ben noti ritardi strutturali della nostra economia hanno acuito, poi, le conseguenze della crisi, mentre il vincolo del debito pubblico si è concretizzato nel non poter effettuare politiche attive di contrasto alla recessione, come invece è stato fatto in altri paesi meno indebitati del nostro.
Alcuni teorici hanno dichiarato che la felicità è l’unica cosa che conta nella vita. Noi esseri umani, per avere un criterio di valutazione della nostra vita, dovremmo poter misurare la quantità di felicità che essa contiene. Io non so se esiste una bilancia adatta a questo uso e non sono un filosofo per affrontare un tema tanto profondo come la Felicità. Prendo a prestito la definizione del prof. Galimberti: “la felicità è la conoscenza di sé, la felicità è la realizzazione di sé”. Ebbene, esiste un modo migliore per esprimere le proprie qualità e la propria missione sociale se non attraverso il lavoro?
Nel corso dell’intero 2013 i lavoratori in cassa integrazione a zero ore hanno superato quota mezzo milione, sempre nello scorso anno , sono state un miliardo e 75 milioni le ore di cassa integrazione richieste e autorizzate, ovvero il terzo peggior risultato degli ultimi quattro anni, ogni ora chiudono due aziende, i redditi hanno registrato, come effetto della cassa integrazione una perdita complessiva di oltre 4,125 miliardi di euro, ovvero 8000 euro in meno in busta paga per ogni lavoratore.
I dati dell’occupazione, fonte Istat, tracciano un quadro sociale che conferma il momento di grave difficoltà per chi è senza lavoro, soprattutto per i giovani. Mai così tanti disoccupati dal 1977, cioè 35 anni fa: il numero dei senza impiego è aumentato di oltre un milione nel giro di quattro anni, dall’inizio della crisi. Incrementa, in particolare, la percentuale di under 34 senza un impiego, mentre in calo quella degli over 50, per effetto della
riforma delle pensioni. E in media, nel nostro paese, dura 21 mesi il periodo di attesa per trovare un lavoro: chi si conquista un contratto a termine, poi, guadagnerà la metà di chi ha un posto fisso. Ma le differenze sociali non finiscono qui: un dirigente d’azienda guadagna quattro volte un operaio. Senza contare che il valore degli stipendi sale con grande fatica: la crescita delle retribuzioni si attesta all’1.3%, ai minimi del 1992.
Adam Smith diceva che il lavoratore deve produrre, accanto alla sua merce particolare, una merce generale. In altre parole il lavoratore deve dare la forma di denaro a una parte dei suoi prodotti. Questo denaro deve servirgli come valore di scambio. Ma quanto valore di scambio può legittimamente guadagnare un uomo, un dirigente, un burocrate, un politico senza provocare disturbi alla nostra morale?
Qualche settimana fa il nostro Segretario regionale della Cgil Giovanni Forte, con il sorriso sulle labbra, con serenità e con grande onestà intellettuale ha mostrato in pubblico la sua busta paga: 2.200 euro al mese. Il compagno Forte è in una posizione di vertice, le sue responsabilità sono grandi, una buona parte della sua vita privata e affettiva viene sacrificata in nome della lotta sindacale. Ebbene al nostro segretario quella busta paga gli basta per vivere una vita onorata, serena, piena di soddisfazioni. Cari compagni ora vi chiedo se vi sembrano normali, sopportabili, giustificabili le enormi disparità di trattamento retributivo tra il dipendente più umile e il dirigente più in alto in carica, che scopriamo ogni giorno sia nelle imprese di Stato che in quelle private? Questa domanda non è demagogica, né vetero-comunista come vanno ripetendo gli ipocriti difensori di tanti odiosi privilegi di classe. Personalmente ho apprezzato molto l’ottimo sceneggiato televisivo della Rai che ha ricostruito la vita di uno degli uomini più nobili della storia italiana, cioè Adriano Olivetti, un imprenditore che ai suoi dipendenti dette lavoro e previdenza, ma soprattutto case, asili, biblioteche, arte. Adriano Olivetti avrebbe voluto applicare sua larga scala una sua regola morale ed economica che avrebbe reso le aziende più giuste. La regola diceva così: “Nessun dirigente, neanche il più alto, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minimo”. Questa equanimità non è mai stata realizzata, i soloni della economia liberista affermano che è pura utopia, mentre i signori della casta continuano a ingrassare e accumulano ricchezze che non placano mai la loro avidità. Tutti i giorni i giornalisti denunciano le maxi-retribuzioni dei manager e noi lavoratori siamo testimoni diretti delle innumerevoli mostruosità retributive, contro le quali è giunta l’ora di opporci fermamente. In Italia, siamo arrivati a legittimare rapporti di 500 a 1 fra top manager e semplici dipendenti. Per non parlare delle liquidazioni milionarie!
Bene, anzi malissimo! Se potessi realizzare un desiderio con la mia volontà, mi piacerebbe attivare un comitato di sociologi, economisti e filosofi, per rispondere ad una domanda semplice e profondissima: Quanto deve guadagnare un uomo per avere una vita dignitosa? L’intuizione di lottare per l’equità salariale, di stabilire un tetto massimo alle retribuzioni è nata nella segreteria della SLC pugliese, lo dico con orgoglio. Poi, come sapete, la Cgil regionale ha deciso con grande determinazione di avviare una petizione per porre fine allo spreco indegno che si concretizza nelle buste paga dei manager apicali. Cari compagni, l’idea che bisogna ridurre le differenze retributive, che bisogna ridistribuire la ricchezza non è un rigurgito di marxismo che ci servirà per formulare qualche nuovo slogan durante gli scioperi o le assemblee. L’equanimità economica è alla base delle società democratiche. E noi faremo tutto il possibile per ottenere che la differenza tra il primo e l’ultimo salariato sia eticamente giustificabile e sopportabile. All’inizio di questo paragrafo ho ricordato un santo laico, Adriano Olivetti e ora voglio chiudere questo tema, evocando un Santo cattolico, un nostro fratello che ci manca non poco: Don Tonino Bello. 23 giorni prima di morire, disse: non arricchitevi!… Quanto sia forte questo messaggio ora non riuscirei a spiegarvelo. Vi ripeto le due semplici parole che don Tonino consegnò a chi poteva ancora godersi la vita, mentre lui la stava perdendo: non arricchitevi…Usiamolo come sigillo della nostra anima e come parola d’ordine della nostra azione politica.
Questa è la parte più penosa della mia relazione. Un sindacalista rimane stordito dalla vergogna quando deve parlare di lavoro e dopo aver cercato qualcosa di positivo da dire, si ritrova a dover elencare un bollettino di guerra: 50 mila inattivi si sono presentati ai Centri per l’impiego della Puglia chiedendo di poter lavorare da qualche parte. La Statistica definisce inattivo un soggetto privo di lavoro, ma interessato a trovarlo.
La disoccupazione, ci comunica l’Assessore Regionale Leo Caroli, è al 19,2% e negli ultimi 5 anni è cresciuta di continuo, del 4,5%.
Il nemico si svela sempre nelle avversità: il nostro nemico è la disoccupazione; nei primi 3 mesi del 2013 il deserto è avanzato, 168 mila persone sono state mandate via dai posti di lavoro. La Puglia è salita su un pessimo podio, quello dei licenziamenti, dietro a Lazio e Lombardia. Dall’Osservatorio della Regione Puglia hanno voluto consolarci con qualche dato statistico: gli analisti ci dicono che non siamo andati totalmente in rovina perché 236 mila nuovi rapporti sono stati attivati; inoltre abbiamo perso meno posti di lavoro rispetto alla media nazionale e nel mezzogiorno stiamo combinati meglio con il tasso di disoccupazione rispetto a Sicilia, Calabria ecc.
Nel settore delle costruzioni si sono avute le perdite lavorative più corpose. Le compravendite delle case si sono dimezzate dal 2006 e il mercato residenziale è finito di gambe all’aria. L’industria e l’agricoltura diciamo che lottano per la salvezza, ma hanno poco da festeggiare. Invece è il turismo il settore che guida la resistenza alla recessione, riuscendo a dare lavoro alla metà degli occupati pugliesi. Per le tipologie di contratto vi risparmio i numeri percentuali. Diciamo che in Puglia la stragrande maggioranza dei contratti è a tempo determinato. Bassa percentuale per i contratti a progetto e bassissima e per gli apprendistato. Le donne hanno meno facilità di accesso al mercato del lavoro, ma Bari è il posto con la più alta occupazione femminile.
Stiamo rischiando una frattura definitiva tra una èlite che possiede cultura e strumenti di interpretazione e una moltitudine lontana dalle conoscenze elementari. Chi può spiegarci le cause di una situazione tanto grave? Esistono in qualche parte del mondo teorici come Marx, Keynes e simili che stanno immaginando teorie capaci di trasformare il mondo in meglio? Stamattina trascuriamo i grandi sistemi e proviamo a ragionare traendo spunti dalla nostra esperienza. Io penso che la crisi economica sia legata, soprattutto, alle ingiustizie del modello di sviluppo che si è determinato in questi ultimi vent’ anni c’è stata una redistribuzione del reddito a danno di chi lavora, c’è stato un aumento della precarietà senaza precedenti. Inoltre, la politica ha permesso uno sviluppo della finanza molto consistente, per cui era più facile per chi aveva soldi per fare speculazioni finanziarie che non investire, questo ha determinato anche un ritardo della produzione.
Per uscire da questa crisi, io credo che ci sarebbe bisogno di valorizzare maggiormente il lavoro, di cancellare la precarietà che non ha precedenti e allo stesso tempo di porsi il problema di un diverso modello di sviluppo. In parole povere: pensare a produrre prodotti che siano ambientalmente sostenibili, ripensando anche un’idea diversa di ambiente, di idea sociale e di costruzione dei prodotti. Inoltre bisognerebbe realizzare una dimensione diversa di integrazione europea e di crescita complessiva dei diritti. Questa crisi ha aumentato le diseguaglianze: chi era ricco è ancora più ricco. Basta fare questo esempio: una volta per non essere povero era sufficiente lavorare, ora invece si può essere poveri pur lavorando, perché non si arriva alla fine del mese. In più, penso che la precarietà e lo sfruttamento in particolare, che riguarda soprattutto le giovani generazioni, è un elemento caratteristico del modello di sviluppo che in questi anni si è determinato. Quindi credo che occorra innanzitutto una maggiore giustizia sociale ed una redistribuzione del reddito.
Inoltre nel nostro paese bisogna aprire una battaglia per far diventare il lavoro un interesse generale. I diritti, i contratti e la Costituzione devono essere la base su cui costruire una diversa idea di sviluppo. Non bisogna accettare questa idea di cancellazione del nostro sistema sociale, della nostra Costituzione, dei Contratti nazionali, perché questo è un danno per chi lavora, ma è anche un imbarbarimento per il nostro Paese, perché vuol dire che le imprese anziché competere per la qualità dei prodotti che fanno, quindi anziché investire sull’intelligenza delle persone che lavorano, pensano di poter semplicemente competere sull’abbassamento dei diritti e dei costi, delocalizzando le produzioni e mettendo in competizione le persone tra di loro.
In questo scenario, il Governo è totalmente assente. In questi anni è stato un disastro, il sistema industriale nel nostro paese è tra i più arretrati d’Europa. Basta fare qualche esempio: mentre la Fiat mette in cassa integrazione i lavoratori perché non riesce a vendere le auto, in Germania siamo addirittura in presenza, da Mercedes a Volkswagen, di imprese che in questo periodo stanno chiedendo di fare straordinari al sabato perché vendono le loro auto in giro per il mondo. Quindi il problema è proprio la qualità dei prodotti che si costituiscono e il fatto che ci sia un livello di investimento adatto a questa direzione. La ricerca e l’innovazione sono degli importanti investimenti.
Io penso che serve anche un intervento pubblico nell’economia. Quest’idea che si può lasciar fare le imprese al mercato e che va tutto bene è stato un disastro. Questi 15 anni dovrebbero fare riflettere tutti e soprattutto quelli che pensavano che questa fosse la ricetta sociale per affrontare i temi. Un nuovo intervento pubblico dovrebbe orientare lo sviluppo, assumendo anche l’idea di una nuova responsabilità sociale dell’impresa. L’impresa non deve solo fare profitto, ma deve essere anche in grado di creare lavoro e di far crescere complessivamente la società. Ci vuole in sostanza un compromesso tra esigenze delle imprese e le esigenze dei lavoratori.
Questo è il migliore dei mondi possibili, direbbe Candido. Noi diciamo di no e continuiamo a lottare per cambiarlo. Ci siamo misurati finora con tre grandi sistemi teorici: comunismo, capitalismo e cristianesimo. Ognuno di essi “è una buona idea che non è mai stata sperimentata”. Lo scambio libero e volontario dell’idea capitalista ha prodotto attività predatorie internazionali e corruzione dei governi. Il comunismo è degenerato in autocrazie brutali sorrette da squallide reti di informatori. L’ideale cristiano è andato di pari passo con inquisizioni contro i possessori di una fede deviante. Perdonate le generalizzazioni; voglio dirvi che: destra o sinistra
sono diventati valori arcaici da mettere in soffitta o nelle cantine, materiale semmai di studio, ammesso che ne valga la pena. L’epoca moderna che ne fece i suoi valori dominanti è finita, il linguaggio è cambiato, il pensiero è cambiato o è del tutto assente.La gente ha perso ogni fiducia nel futuro ed è dominata dalla rabbia o schiacciata dall’indifferenza; sono diventati fenomeni sociali, atteggiamenti collettivi che sboccano nel bisogni di un capo. Un Capo carismatico, un uomo della provvidenza capace di capire, di imporsi, di guidare verso la salvezza di ciascuno e di tutti. Ha bisogno di fiducia? Sono pronti a dargliela. Chiede obbedienza? L’avrà piena e assoluta. L’uomo della provvidenza non ha bisogno di conquistare il potere poiché nel momento stesso in cui viene individuato il potere è già nelle sue mani. Carisma e potere, fiducia e potere, obbedienza e potere: questo è lo sbocco naturale che non solo domina la gente orientando le sue emozioni, ma sta diventando anche l’obbiettivo che molti intellettuali vagheggiano come la sola soluzione razionale da perseguitare. Non importa che la loro cultura sia stata finora di destra o di sinistra. L’uomo della provvidenza supera questa classificazione: la gente che lo segue l’ha già abbandonata da un pezzo e gli intellettuali a la page se ne fanno un vanto. Il leader non è l’uomo solo che decide da solo con il rischio che i fatti gli diano torto. Quando questo avvenisse, ed è sempre avvenuto, le rovine avevano già distrutto non solo il dittatore ma il Paese da lui soggiogato. Io penso che un leader non è un dittatore. E’ un uomo intelligente e carismatico, certamente ambizioso, attorniato da un stuolo di collaboratori, che non sono cortigiani né clientes o lobbisti, ma il quadro dirigente con un sua visione del bene comune che si misura ogni giorno con il leader. Il PCI lo chiamò centralismo democratico e tutti i segretari di quel partito, dal primo all’ultimo, si confrontarono e agirono in quel quadro. Togliatti era il capo riconosciuto, Enrico Berlinguer altrettanto, ma il confronto con pareri difformi era costante e quasi quotidiano, con Amendola, Ingrao, Secchia, Macaluso, Pajetta. I leader riassumevano il quadro ed erano loro ad esporlo e ad esporsi, ma prima il confronto era avvenuto e la soluzione non era affatto d’un uomo solo ma di un gruppo dirigente. Bei tempi! Chi li ha vissuti può frugare nei suoi cassetti e trovare tessere di partito o tessere sindacali ed emozionarsi ancora nel ricordare cosa hanno rappresentato quei pezzi di cartoncino. È passata molta acqua sotto i ponti della Storia da allora. Siamo in un momento di estrema difficoltà del paese, io penso che siamo alla fine di un ciclo. Un progetto cominciato con Monti e poi con Letta, le larghe intese non hanno dato i suoi frutti, non basta un leader nuovo o l’uomo della provvidenza ma serve un vero progetto.
‘Sono le nuvole dell’errore che provocano la tempesta del turbamento’ , direbbe Bacone. La società è afflitta da ingiustizie e disparità, ma sentiamo dalla classe politica italiana un giudicare mal proporzionato della realtà attuale, che genera confusione e tensioni fortissime. Ma quali sono gli errori che stanno generando la tempesta del turbamento?
La rabbia sociale c’è, è motivata, vedi il movimento dei forconi, ma va lenita con tutti i mezzi disponibili, ma va anche affrontata sul campo che le è proprio e questo campo è soprattutto l’Europa. Molti che si fingono esperti, e non lo sono affatto, sostengono che l’Europa non conta niente e che soprattutto l’Italia non conta niente. Io penso che sbagliano. L’Europa è ancora il continente più ricco del mondo e se quel continente fosse uno stato federale, il suo peso di ricchezza, di tecnologia, di popolazione, di cultura, avrebbe il peso mondiale che gli compete. Quanto all’Italia, a parte il fatto che è uno dei paesi fondatori dai quali la Comunità europea cominciò il suo cammino, essa trascina sulle sue, cioè nostre, spalle il debito pubblico più grande del mondo. Questo è il nostro più terribile handicap, che ci distingue da tutti gli altri ma è, al tempo stesso, un elemento di forza enorme. Perché se l’Europa non ci consente di adottare una politica di crescita, di lavoro, di equità, l’Italia rischia il fallimento economico e il dilagare della rabbia sociale. Ma se questo dovesse avvenire, salterebbe l’intera economia europea insieme con noi, con il forte rischio, in assenza di una politica economica diversa e di un modello di sviluppo che sappia rimettere al centro i diritti coniugando giustizia e sostenibilità, di vedere crescere forze politiche e movimenti neonazionalisti e xenofobi, impegnati nell’opera di demolizione della storia europea e delle possibilità di una integrazione fondata sui diritti e la coesione sociale.
Comunque, l’assemblea di Bruxelles sta realizzando i propositi più nobili e meritori. Le nazioni del nostro continente hanno sostituito il dialogo al conflitto. Prevale la passione dell’intendersi e del comprendere a ogni volontà di sopraffarsi. Anche noi, cari compagni, che siamo soggetti impegnati alla costruzione pacifica della società, non dobbiamo mai smettere di dialogare, anche quando ci troviamo di fronte la fragilità umana o l’umana malizia. Dobbiamo ridurre sempre di più la distanza tra persone che hanno affinità culturali e condizioni economiche simili, anche quando dalla fatica del pensare si esce più incerti di prima.
In questa crisi economica la divisione dei sindacati è indubbiamente un problema: quando si è divisi si è più deboli. Dietro l’angolo c’è sempre il tentativo del Governo e della Confindustria di cancellare i Contratti e la contrattazione è quello di far diventare il sindacato un soggetto che gestisce le assunzioni, la formazione e che offre dei servizi ai lavoratori. Questo vuole dire cambiare la natura del sindacato. Io, invece, ritengo che il lavoratore abbia il diritto di poter contrattare la propria condizione. Inoltre io penso che per poter recuperare un unità sindacale, quando ci sono idee diverse tra i sindacati, sarebbe necessario che i lavoratori potessero votare e decidere sui contratti che li riguardano attraverso la certificazione dell’effettiva rappresentanza sindacale.
In questa direzione va l’accordo, del 10 gennaio scorso, sul Testo Unico sulla rappresentanza, attuativo dell’intesa interconfederale del 31 Maggio 2013. È stato un percorso molto complicato e difficile, perché il passaggio dai principi alla definizione delle regole non è mai semplice. Oggi siamo di fronte a un testo che rende finalmente concreto l’esercizio dell’esigibilità degli accordi e dei contratti, intendendo per questo il fatto che un contratto nazionale per essere valido deve essere sottoscritto almeno dal 50 per cento di uno delle organizzazioni sindacali certificate. Inoltre, il testo deve essere votato dalla maggioranza dei lavoratori. Solo con queste due condizioni il contratto è esigibile e quindi applicabile non solo all’insieme dei lavoratori, ma anche all’insieme delle imprese, vincolando le stesse imprese per la prima volta al rispetto dell’accordo sottoscritto. Inoltre, sparisce la quota di 1/3 riservata alle organizzazioni sindacali. In questo modo, la Rsu è l’espressione diretta del voto proporzionale sulle liste dei lavoratori e delle lavoratrici. Insomma l’accordo, sancisce le Rsu come le uniche agenti contrattuali all’interno della singola impresa. Infine, io credo che con questo accordo si offre, in mancanza di una legge sulla rappresentanza, una chiave di lettura, una chiave possibile per la regolazione di quali sono le modalità con cui si costruiscono piattaforme e accordi, come si applicano e come si rendono esigibili che potrebbero essere, appunto, utile per una legge in materia.
Specificando queste cose ho voglia di vantarmi di essere qui, tra tanta gente che esprime una meticolosa fedeltà ai miei stessi ideali. Dopo tanti anni, come facevano una volta i grandi giocatori tipo Mazzola, Rivera, De Sisti, Riva sento di avere uno spirito di attaccamento alla maglia che mi inorgoglisce. Il sindacato, soprattutto il nostro sindacato, lo considero un eroe della modernità. Per merito suo il popolo dei lavoratori ha imparato a osservare, discutere, lottare, a solidarizzare, a studiare … è per merito del sindacato che il popolo dei lavoratori ha saputo sopravvivere perfino nei periodi più tragici della storia italiana, sempre rispettando le regole, ma soprattutto facendole rispettare a chi si sentiva onnipotente, intoccabile, invincibile.
In questa fase del paese, il congresso della Cgil è una prova importante, perché non si tratta solo di dare un voto per scegliere il leader come è avvenuto, ad esempio, con le primarie del PD. Si è trattato di andare in ogni posto di lavoro e sul territorio, a proporre una strategia, a spiegare i contenuti di scelte che riguardano le politiche sociali e di sviluppo, il lavoro, i diritti, la contrattazione, il welfare, la coesione sociale, il ruolo dell’Europa, la democrazia e la partecipazione. È quindi una grande sfida. È questo il congresso della Cgil, non altro. Non una corrida fra contrapposte posizioni, non un duello per misurare i consensi fra i vari dirigenti ad ogni livello. Il vero tema è come si pone il sindacato verso la crisi, cosa deve continuare a fare, in cosa deve cambiare, come si riappropria di attenzione e seguito ma soprattutto di consenso, quando questo è indebolito o spezzato. Come rappresentare chi oggi non ha voce, chi non ha lavoro, chi non ha diritti, chi non ha welfare, chi è ai margini della società perché troppo povero. Come cambiare il modello della società, come ridare speranza ai giovani, fiducia a chi non riesce ad entrare nel mondo del lavoro e si ritrova troppo giovane per andare in pensione o troppo vecchio per trovare un impiego. Come dare spazio in modo concreto e condivisibile alla contrattazione sociale territoriale, in ogni Comune, in ogni Regione, creando anche una nuova fiducia verso la rappresentanza sociale, la politica e le istituzioni. Come aumentare la partecipazione dei cittadini a scelte che riguardano la propria condizione di vita.
Oggi si parla molto di job-act, di contratto unico, di revisione delle pensioni, di art.18, di diritti e di modelli contrattuali considerati pretestuosamente troppo usurati e un po’ superati. Ci sono argomenti che danno visibilità a chi ne parla, mentre altri non sono considerati centrali nei dibattiti e suoi giornali. E può capitare di non essere considerati interessanti anche dal palcoscenico della politica. Eppure, oggi, è la centralità del lavoro che decide il futuro, insieme alla condizione di vita, all’uguaglianza e alla giustizia sociale di tante persone. L’Europa, le politiche fiscali, le pensioni, le politiche dell’istruzione, formazione e ricerca, gli assetti istituzionali, le politiche industriali, le politiche attive del lavoro, l’inclusione sociale, la libertà delle donne, la contrattazione. Di tutto questo vorrei scoprire aldilà di promesse e slogan che cosa ne pensano vecchi e nuovi leader di vecchi e nuovi partiti. Vorrei che si misurassero con le proposte coraggiose e con la sfida che la Cgil e tutte le sue strutture confederali e di categoria hanno messo in campo con il Piano del lavoro e con le undici azioni congressuali sopracitate. Anche in questo modo si può aiutare il paese a trovare la strada per uscire dalla crisi. Non si tratta di rivendicare una burocratica attenzione ai temi posti dalla Cgil. Non si tratta di aprire vecchie collaborazioni fra sindacati e partiti. L’autonomia è un bene prezioso e irrinunciabile per tutti. Si tratta di consegnare ad ognuno, alla rappresentanza sociale, politica, imprenditoriale, alla società civile un
compito preciso nel rispetto dei ruoli di ognuno: ridare un futuro di democrazia, libertà e giustizia sociale. Occorre un progetto per il nostro Paese e per ridare credibilità e rispetto all’Italia dopo venti anni in cui è successo di tutto. Questa è la più grande e vera emergenza. Veniamo da anni difficili e so pure che in questo tempo il sindacato non è il più amato dagli italiani, che ha avuto dei limiti e talvolta anche qualche ritardo. Ma non è ignorandolo o indebolendolo né tantomeno riducendone ruolo e compiti che il Paese starà meglio. È per questo che dobbiamo rivolgerci a tutti i nostri iscritti e soprattutto ai giovani, per farli diventare protagonisti di una nuova e più forte stagione sindacale.
Siamo giunti alla parte della mia relazione che riguarda i settori che noi organizziamo e vorrei partire dal settore più debole, quello della Produzione culturale.
La grave crisi economica che attanaglia da anni il nostro Paese fa sentire prepotentemente la sua morsa anche nei settori della produzione culturale dove la realizzazione di opere immateriali, quali gli spettacoli teatrali, musicali e più in generale tutte le rappresentazioni dal vivo, incontrano sempre maggiori difficoltà ad andare in scena.
Il problema è noto da tempo tra gli addetti ai lavori ed ha ricadute che coinvolgono migliaia di figure artistiche, amministrative e tecniche, per le quali, in molti casi, non vi sono nemmeno ammortizzatori sociali utili a tamponare l’assenza di lavoro.
La nostra Organizzazione, cosciente della pesante situazione che incombe sul settore, si batte da tempo per ottenere soluzioni strutturali a questi problemi, soluzioni che necessitano però dell’intervento convinto delle forze politiche, di un Governo nel pieno dei suoi poteri e degli Enti Locali.
Tali difficoltà stanno ormai compromettendo l’operatività di molti teatri ed in alcune realtà, come la Puglia , la situazione è divenuta particolarmente critica.
Conosciamo tutti l’incresciosa situazione del Petruzzelli, in cui si è consumata una vera e propria congiura ai danni della Cgil e dei tanti lavoratori rimasti disoccupati. Anche se la situazione è stata chiarita, permane il dato di una gestione scriteriata del Teatro e della Fondazione, in cui permane un caos organizzativo, amministrativo e artistico che non accenna a risolversi e che priva l’intera Regione della possibilità di veder crescere un polo di eccellenza nell’ambito della produzione lirico – sinfonica, con grave danno per i cittadini e le maestranze tutte.
Inoltre continua la chiusura di teatri e centri culturali (l’Oda teatro di Foggia, il teatro dell’Anonima, il Purgatorio, il Piccolo Teatro di Bari, il Teatro Duse), a causa di mancanza di fondi e di norme molto restrittive sulla sicurezza, privando sempre più il nostro territorio di spazi culturali al servizio dei cittadini e di centri di produzione di cultura.
Appare evidente che tale situazione non può più essere gestita contando esclusivamente sulla disponibilità e sopportazione di tanti professionisti ma necessita di un intervento congiunto di tutte le Istituzioni nei confronti di questo pezzo così importante della nostra società e del mondo del lavoro.
La Slc e la Cgil non possono ignorare questa situazione e hanno il dovere politico, morale e sociale di assumere un ruolo di mediazione e dialogo tra lavoratori, imprese e istituzioni con l’obiettivo di salvaguardare un bene comune quale è la Produzione Culturale, tentando il superamento di scontri al limite della sostenibilità stessa del settore, già indebolito dalla grave crisi.
Per tali ragioni riteniamo importante che si apra, quanto prima, una concertazione territoriale tra il Sindacato e gli Enti che gestiscono il settore, al fine di costruire un sistema di regole atte a garantire gli investimenti utili per una programmazione pluriennale a favorire lo sviluppo e la crescita quantitativa e qualitativa delle nostre imprese di spettacolo. Un percorso governato e graduale che attraverso la valorizzazione di questo settore confermi anche la vocazione del nostro territorio quale polo culturale riconosciuto tra i più interessanti del Paese, e che potrà contribuire a offrire nuove opportunità di lavoro anche ai nostri giovani.
La nostra organizzazione si impegnerà a rilanciare e intensificare la sua azione di rappresentanza nel settore della Produzione culturale, potenziando inoltre un sistema di assistenza fiscale e legale specifico, chiedendo a Cgil e Inca di collaborare in tal senso per fornire risposte adeguate ai problemi di questi lavoratori. Per realizzare tutto ciò è quanto mai indispensabile uscire da linee corporative e difensive, dialogare con l’intero mondo del lavoro coinvolgendolo in una battaglia comune per la difesa dei nuovi diritti di cittadinanza, come quelli legati alla produzione culturale, prendendo coscienza del nostro ruolo e operando per lo sviluppo del senso della solidarietà che sta alla base della nostra organizzazione sindacale.
Nel 1973 nacquero le tv private in Italia e nel 1976 le radio private. Grandi pionieri sparsi in ogni angolo d’Italia ruppero il vecchio monopolio della Rai e centinaia di voci nuove comparvero all’improvviso, creando maggiore libertà espressiva, più informazione locale e soprattutto una democrazia più partecipata.
Oggi siamo in un quadro di grandi incertezze come ho già evidenziato per il settore della produzione culturale quello dell’informazione la preoccupazione del sindacato assume valore importante.
Sono ormai lontani i tempi in cui la carta stampata e le televisioni viaggiavano a pieno regime con leggi di supporto favorevoli e la pubblicità che non aveva ancora fatto i conti con la crisi economica.
Tutte le leggi di supporto alla carta stampata sono state eliminate ed ultima la modifica alla legge 416 sul prepensionamento che ha elevato dal 1 gennaio 2014 l’età per l’accesso da 32 anni a 35 anni ed ancora a 36 nel 2016 ed a 37 anni nel 2018.
I finanziamenti alle televisioni private hanno avuto una drastica riduzione e le entrate pubblicitarie hanno avuto un crollo verticale.
Potremmo elencare le situazioni di crisi che investono tutta la regione: La Gazzetta del Mezzogiorno, Il Corriere del Giorno, la chiusura di tante piccole testate, Centri stampa in continuo pericolo. Per non parlare delle televisioni quali Telenorba, Antenna Sud, Telebari, Teleregione, Telerama, Studio 100, Teleblu ed altre.
Insomma tutto il sistema è saltato con la ricaduta negativa di licenziamenti, Cassa integrazione, solidarietà, attaccando violentemente l’occupazione che nel settore sta avendo drastici tagli.
Certamente anche il 2014 sarà un anno di crisi e la ripresa sull’investimento pubblicitario è ancora lontana per cui solo dal 2015 se ci sarà una inversione di tendenza della crisi economica si potrà contare su una ripresa degli investimenti anche nel settore pubblicitario.
Oltre a ciò la quota di lettori di libri in Italia è scesa dal 46% nel 2012 al 43% del 2013. Una famiglia su dieci, inoltre, non possiede nemmeno un libro in casa. Permangono, infine, le differenze territoriali: al Nord legge oltre la metà della popolazione, il 50,7%, al Centro il 46,8%, mentre al Sud e nelle isole la quota di lettori è pari al 30,7%. Tutto ciò provoca, a valle, nella filiera delle nostre aziende grafiche, disastrose ricadute sulla occupazione. Avevamo salutato con soddisfazione l’annuncio del Governo, in questa finanziaria, di poter scaricare per il cittadino lettore il 19% del costo del libro, ma ahimè è rimasto solo una dichiarazione di intenti, visto che questa norma è stata cancellata, lasciando la possibilità solo per le librerie e le messaggerie la possibilità di scaricare l’aliquota sopra citata. Un antico proverbio dice: “per sapere la verità bisogna ascoltare due bugiardi”. Impegniamoci a scoprire chi sta dicendo bugie verso quegli imprenditori della conoscenza che si accontentano di guadagni risicati pur di diffondere cultura e arte. Ascoltiamo tutti i bugiardi che non sostenendo materialmente i preziosi settori della editoria, della ricerca, della filologia, dell’arte stanno di fatto imbruttendo l’Italia. Intanto constatiamo tristemente che tutta la materia del settore è regolata da una legislazione superata e da un sistema di governo del comparto, non più accettabile.
In Italia si vive una anomalia che in nessun altro paese al mondo esiste. Non è possibile che il cosiddetto duopolio Rai/Mediaset catturi tra canone e pubblicità il 70% delle risorse. Non è possibile che in questo Paese a fronte del soggetto pubblico quale la Rai, ci sia nelle mani di un privato peraltro leader politico tre televisioni nazionali, la più grande casa editrice quale Mondadori, un quotidiano a tiratura nazionale quale il Giornale, società di distribuzione e di produzione cinematografica e tanto ancora, che di fatto soffoca, come prima dicevo, insieme alla Rai, l’iniziativa locale, lasciando a questa un mercato che non va oltre il 30% della pubblicità. Di contro è inaccettabile che in questo Paese le tv e radio private sono cresciute in maniera abnorme senza alcuna regola. Si tenga presente che solo la Puglia ha un numero di televisioni e radio private pari a quelle di tutta la Germania. Ecco perché diventa necessario intervenire a livello nazionale per sviluppare una iniziativa che, a partire dalla salvaguardia delle migliaia di lavoratori dipendenti nel contenitore Mediaset, regoli questo settore con interventi radicali, tali da dare un riassetto sia al ruolo della tv pubblica ma anche in quella privata di carattere nazionale e di carattere locale.
In questo quadro si inserisce il rapporto che i tecnici, gli amministrativi, i poligrafici del settore tv e carta stampata hanno con i giornalisti. Questo comparto non disdegna laddove è possibile esautorare e appropriarsi delle mansioni dei tecnici e dei poligrafici pur di affermare la loro permanenza a discapito dell’altra, sapendo che è difficile che i tecnici ed i poligrafici possano sostituirsi ai giornalisti. Quindi oltre ai problemi legati alla crisi e ad una legislazione incapace di razionalizzare il sistema ci sono i problemi legati ad un profondo distacco tra giornalisti e tecnici e poligrafici e tra sindacato della comunicazione e sindacato dei giornalisti.
Dal nostro punto di vista è da modificare e subito la legislazione regionale. Il Corecom non è più attuale. Limitarsi a svolgere il ruolo di notaio per stilare una graduatoria e distribuire pochi euro di finanziamento non risponde più alle esigenze del settore televisivo.
Ci vuole ormai una legislazione dinamica. Oserei che dire sul sistema dell’informazione e della democrazia ci vorrebbe l’istituzione di un assessorato al ramo, per un sistema cardine delle prospettive democratiche del Paese e della Regione.
Questo è un pezzo di ragionamento inserito in una relazione che tiene conto dell’insieme dei problemi di Slc. Abbiamo deciso, per poter essere puntuali
e propositivi, di realizzare una iniziativa unitaria con Cisl e Uil – come già fatto a Bari – che analizzi a fondo i temi del Settore e costruisca proposte a partire da quanto è successo per le tv con l’avvento del digitale e per la carta stampata sui tentativi di destrutturazione del sistema, realizzando una piattaforma regionale capace di guardare avanti in termini di proposte e di lotta, qualora inascoltati in questa Regione, a supporto delle iniziative nazionali.
Qualche tempo fa un autore anonimo aveva messo in giro questo aneddoto: due democristiani si incontrano: “Andiamo a prendere qualcosa?”. “A chi?”. Oggi non ci sono più i democristiani che ispirarono la barzelletta, ma il vizio di saccheggiare i forzieri dello Stato dobbiamo constatare che non si è perso.
Il Dpcm 46 del 24.11.2014 stabilisce l’avvio del processo di privatizzazione di Poste Italiane, che costituirà l’IPO più importante del 2014.
La privatizzazione prevista dovrebbe fruttare allo Stato circa 4 miliardi, e la finalità principe è la riduzione del debito pubblico.
Qui si annida il primo vero tema che attiene alla ragionevolezza di questa privatizzazione. Non siamo infatti di fronte ad una quotazione e ad una parziale privatizzazione motivata dalla volontà di trovare nuovi capitali da investire nella più grande azienda a rete del paese, vendita supportata da un piano di sviluppo industriale coerente con il perimetro di attività dell’azienda. Siamo invece dinanzi ad una idea di vendita dell’ennesimo asset pubblico, con l’unica finalità dichiarata di fare cassa.
Peraltro l’incidenza di riduzione del debito pubblico legata alla vendita del 40% del pacchetto azionario ridurrebbe lo stesso in modo quantitativamente irrilevante!
A questo si aggiunga che Poste Italiane da almeno 8 anni produce ingenti utili di bilancio, interamente incassati dallo Stato (unico proprietario): il bilancio 2012 chiudeva ad esempio con 1 miliardo e 32 milioni di utili.
Dunque le perplessità della Slc Cgil sui modi e sulle ragioni per cui si intende procedere alla privatizzazione hanno un ragionevole fondamento.
Lo Stato incasserebbe una cifra di per sé non significativa ai fini della diminuzione della pressione del debito pubblico che, ricordiamolo, ammonta a più di 2000 miliardi di euro, e rinuncerebbe ad una fetta di dividendi che Poste Italiane annualmente produce.
A questo si aggiunga che vi è il nodo irrisolto delle compensazioni che lo Stato deve onorare nei confronti di Poste italiane, per lo svolgimento di una serie di servizi, e che oggi ammonta a circa 1,18 miliardi (parte dei quali, circa 152 mln, privi di copertura). Dunque, in via del tutto ipotetica, lo Stato incasserebbe 4 miliardi ma ne dovrebbe restituire 1,7.
Vi sono poi molte perplessità sulla collocazione delle azioni. È evidente che un azionariato diffuso, che eviti concentrazioni significative in capo ad alcuni investitori privati, consentirebbe di mantenere l’effettiva governance pubblica. Viceversa si prefigurerebbero scenari analoghi a quelli vissuti in Telecom, dove Tronchetti Provera, per citare un solo azionista, con il 22% governava di fatto l’azienda.
Destano poi forti preoccupazioni le dichiarazioni dell’ex-ministro Saccomanni. Che ha dichiarato che: si parte dal 40%. Come a dire che la governance pubblica è prevista solo per una fase temporanea e non si avranno remore a collocare sul mercato ulteriori pacchetti di azioni.
Bisogna poi considerare cosa è oggi Poste Italiane e che ruolo svolge nel sistema paese. Poste Italiane, voglio ricordarlo, è un gruppo di aziende in grado di fornire servizi molteplici ai clienti retail come ai clienti business, costituendo la più grande rete delle reti del paese ed ha un equilibrio interno che le consente di equilibrare i costi ed i ricavi delle diverse aziende producendo comunque utili ingenti.
Per il suo essere strutturalmente una enorme piattaforma di servizi integrati in tema di credito-logistica-digitalizzazione-sistemi pagamento, Poste Italiane può inoltre candidarsi ad acquisire ulteriori fette di mercato nella relazione integrata con la clientela sia business che retail sul tema, ad esempio, del trasporto merci e sperimentare nuove forme di recapito della corrispondenza che ne diminuiscano i costi e ne aumentino l’efficienza. Questo consentirebbe di onorare l’obbligo del servizio universale in modo più efficiente di quanto si faccia oggi e di implementare i servizi ai cittadini.
Peraltro il punto di forza dell’azienda è costituito dalla rete capillare di sportelli postali e di accettazione grandi clienti per la commercializzazione del prodotto, che consente di intercettare la clientela e proporle la complessità e l’integrazione dei servizi postali insieme a quelli finanziari ed assicurativi.
È quindi evidente l’ipotesi che, dopo la prima fase della privatizzazione, seppur parziale, si prosegua la valorizzazione di asset produttivi ed il loro autonomo collocamento sul mercato per ottenere utili immediati in capo agli investitori privati, segnando la fine di Poste Italiane per come la conosciamo e depotenziandone definitivamente le pur evidenti prospettive di ulteriore sviluppo.
Si segnerebbe infatti un depauperamento della forza di un gruppo di aziende che, dalla forte integrazione dei servizi, e con l’utilizzo del brand di Poste italiane, intercetta una clientela sempre più vasta di cui può soddisfare le molteplici esigenze come nessuna singola azienda di servizio può fare. Tutto ciò con un incremento di utili per lo Stato e il mantenimento di standard di efficienza per gli utenti.
Non è irrilevante infatti la considerazione che gli investitori privati mireranno da subito, anche a gruppo inizialmente indiviso, ad investire sul settore maggiormente remunerativo, quello del Bancoposta, senza considerare il ruolo sociale e pubblico che l’azienda oggi svolge sia con la capillare presenza di piccoli uffici, spesso ultimo presidio dello Stato nelle zone maggiormente periferiche del paese, sia con il servizio di recapito, che potremmo definire un doveroso business sociale. Infine l’idea di una quota di azioni in capo ai dipendenti, anche se con quota indivisa, declina un’idea di partecipazione dei lavoratori al rischio di impresa che è cosa ben diversa da una reale partecipazione degli stessi alla vita dell’impresa.
Ci sono esempi europei in questo senso che privilegiano una maggiore partecipazione alla vita delle imprese (vedi il modello francese), che non comportano la partecipazione agli utili ed alle perdite delle aziende.
Infine vi sono questioni non irrilevanti da dirimere, quali ad esempio lo storico rapporto tra CDP e Poste Italiane, ad oggi unico collocatore dei prodotti di risparmio più diffusi nel paese, ed il Contratto di programma che stabilisce oneri e remunerazioni per lo svolgimento del servizio universale.
Per tutte queste ragioni la nostra Organizzazione ha la necessita politica di caratterizzarsi in categoria rispetto a questo processo. La Slc Puglia, in questo Congresso, lancia una proposta, alla Segreteria Nazionale, di una raccolta di firme tra le Lavoratrici e Lavoratori, su una petizione che acclami in un testo tre cose: che non si superi la soglia del 40 per cento, che ci sia una azionariato diffuso e infine che non ci sia la presenza del sindacato nel cda.
Faccio una utile digressione. Il mio primo editoriale per il sito Slc che Tonino Loprieno ha voluto fortemente, ho voluto scriverlo sulla Telecom, perché sollecitato dalle vertenze in atto e dalle indecenti notizie che venivano riportate dai giornali nazionali.
La Telecom di oggi è figlia della privatizzazione. Prima della privatizzazione, nel 1993, Telecom aveva 120.000 dipendenti, oggi 50.000. Aveva 8mld di debiti (ma con un cash flow di circa 28 mld), oggi ha debiti per 27 mld, aveva un estero forte oggi rimane solo il Brasile.
Questa non è solo la fotografia della Telecom ma dell’intero paese ed anche dell’Europa. Effetti dell’ubriacatura del liberismo li vediamo anche in GB, patria delle privatizzazioni con la Thatcher, oggi i prezzi ad esempio dell’ energia si sono impennati nonostante la privatizzazione del settore.
British Telecom si è fatta dare 2,5 mld di euro per portare la banda larga nel Paese, ma sulla fine degli anni ottanta fu privatizzata ed oggi fa investimenti necessari al paese con i soldi dello Stato Britannico.
Il fatto è che il privato non investe se il rientro non è certo e garantito nel breve periodo, in qualsiasi paese del mondo. Al tempo della nascita della Telecom si diceva che nel 2000 due posti di lavoro su tre dovevano essere nell’ICT: così non è stato. L’Opa Olivetti-Colaninno e poi l’arrivo di Tronchetti Provera-Pirelli, non ostacolate dai diversi Governi, hanno affossato Telecom , riempiendola di debiti e arricchendo solo le banche.
Lo smantellamento dell’Iri nel 1993 e le privatizzazioni che si dissero necessarie per far entrare l’Italia in Europa, cosa buona e importante, se non fossero state fatte avrebbero elevato il debito pubblico dal 103 al 115%, oggi dopo tutto questo scempio siamo al 130%. Quindi non vanno mitizzate le privatizzazioni, in Italia come nel mondo. Specialmente quando un stato rinuncia ad ogni se pur minimo controllo.
Anche Telefonica non se la passa bene. L’idea di Allerta il patron dell’azienda spagnola è diventare il primo operatore in Europa, ma per il momento si accontenta, tra virgolette, dopo la vendita di Tim Argentina, di mettere le mani su Tim Brasile, una società con un flusso di cassa enorme superiore addirittura a quello spagnolo, con cui tamponare il grande indebitamento degli ispanici.
Il problema è dunque europeo, non solo italiano. Basti pensare che in Europa il mercato è estremamente frammentato. Infatti ci sono circa 150 operatori – in Usa ce ne sono 4, in Cina 3, come in Giappone – dimostrando tutti una grande debolezza. Prima o poi saranno i cinesi a recarsi al supermercato delle TLC in Europa, diventandone i padroni.
Ma il vero problema il Italia è la Rete. L’idea di far ricorso alla Cassa depositi e prestiti non è ancora tramontata. Certo è che non si fanno investimenti da molti anni, mentre la rete andrebbe riammodernata. Infatti siamo all’ultimo posto in Europa nell’accesso ad internet veloce. Mentre, come abbiamo visto recentemente a Presa diretta di Iacona, persino in Estonia esiste una rete internet super veloce, che raggiunge città e campagne. Lì, tutte le scuole hanno connettività in fibra ottica gratuita. Verificando lo speed test si vede come con la fibra ottica le velocità sono
pari al 100% di quella dichiarata: 100 Mega. In Italia mediamente solo del 7%. Da casa si possono richiedere documenti, pagare le tasse, spedire la posta con il cellulare, e pagare i parcheggi o comperare i biglietti dell’autobus, con un risparmio di tempo e in burocrazia. Ma vi è anche wi-fi pubblico e gratuito ovunque. In Estonia tutto il settore del ICT rappresenta 8,5 punti del Pil del Paese, con occupazione in crescita e stipendi molto alti. Proprio come in Italia (!), oggi ridotta a paese del terzo mondo, nella tecnologia come nei salari dei lavoratori.
Un’analisi a parte merita il mondo dei Call Center.
Nato come un settore dominato dalla precarietà, senza della quale si diceva che non poteva esistere, in questi anni si sono sovvertite tutte le analisi, superficiali e costruite ad arte, dalle imprese di Call Center.
Così era sino al 2006, anno in cui il ministro Cesare Damiano emanò la famosa Circolare. La quale sosteneva che il ricorso generalizzato al lavoro a progetto nei Call Center era giuridicamente insostenibile e che, specificatamente nel settore in-bound non avesse alcun contenuto di progetto, ma fosse solo lavoro subordinato mascherato. Si rafforzò anche il sistema delle ispezioni nelle aziende.
Grazie a quella circolare fu possibile in meno di venti mesi, trasformare in lavoro stabile il rapporto di oltre 26.000 lavoratori. I quali, anche a Taranto, grazie ad una prospettiva seria poterono investire sul loro futuro di vita. Poi, però, il processo si è bloccato in seguito al cambio di Governo, con il ritorno del centro-destra.
Nonostante ciò molti passi avanti sono stati fatti, anche ricordando il recente accordo dei LAP (lavoratori a progetto). Ma soprattutto cambia il call center. L’industria dei call center, sebbene giovane, ha mostrato una crescita importante per dimensioni e per qualità del lavoro offerto alla clientela. Dopo aver contribuito a migliorare il sistema del front-office delle aziende italiane, l’atteso sviluppo tecnologico e la diffusione di internet veloce, offrirà possibilità di crescita per i call center, sia nelle tecnologie voip, che nella veloce diffusione della rete internet.
Siamo, dunque, giunti ad un punto di svolta possibile per i call center ovvero ad una caduta irreversibile. Vedi tutto il nuovo sviluppo delle App. Io penso che il futuro dei call center evoluti è essere multichannel. Sapere integrare e gestire coerentemente i vari canali di contatto con il cliente: le informazioni raccolte al telefono non possono essere slegate da quelle reperite su web o per email.
Inoltre non possiamo non considerare l’impatto che la Riforma dello Stato rispetto alla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione – vedi Decreto del Fare – avrà su questo mondo. Un mondo che ha visto in prima battuta lo sviluppo della Telecomunicazione, poi quello delle utilities, e da quì ad un passo la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione. Tutti temi che abbiamo dibattuto nell’iniziativa del 8 Novembre scorso a Taranto dal titolo “Quale lavoro per i Call Center?”
Serve che tutti facciano la propria parte, sino in fondo: aziende, sindacati, legislatori e ad anche i lavoratori. Ma per fare ciò occorre che una volta per tutte si attivino migliori pratiche normative, atte a favorire chi stabilizza. Ad esempio prolungando la legge 407, ma solo per quelle aziende che certificano il lavoro non stabilizzato, contenendolo entro il 15% della forza lavoro e che, soprattutto, si metta una regola tombale sulle commesse al massimo ribasso. Vero obbrobrio democratico che spinge l’intero sistema verso un terzomondismo industriale. Tutto il contrario di quel che serve all’Italia per crescere.
Siamo alle ultime curve, direbbe un cronista del Giro d’Italia. La mia relazione che sta per tagliare il traguardo di questo nostro Congresso.
Il mio primo atto da Segretario Generale fu, nei primi giorni di luglio, di andare a conoscere i compagni dell’Istituto Poligrafico di Stato di Foggia, che in quei giorni stavano lottando per assicurare, all’IPZS, all’interno del Decreto del fare, le nuove applicazioni delle cosiddette carte valori a tutti i prodotti destinati ad attestare il rilascio da parte dello Stato e che sono realizzati con tecniche di sicurezza. Con la modifica all’articolo 2 della legge 559/1966 in materia di compiti dell’Istituto Poligrafico dello Stato, a fine luglio si raggiunge questo straordinario risultato per il futuro dell’occupazione all’interno della cartiera di Foggia. Ma le lobby sono sempre in agguato e a dicembre, con la nuova finanziaria, il Poligrafico rischiava di perdere la commessa del Giocolotto, attraverso un emendamento presentato dal capogruppo PD alla Camera, che prevedeva, appunto, il trasferimento della commesse dal poligrafico di Foggia, pubblico, a un’Ati di Potenza che avrebbe condiviso l’appalto anche con un imprenditore della bergamasca. La perdita della ordinazione avrebbe comportato un varco molto insidioso per il mantenimento dei livelli occupazionali per questo stabilimento. E’ stata una dura battaglia e con un rapporto sinergico tra SLC di Foggia e SLC Regionale e la parte buona della politica, abbiamo respinto l’assalto e l’emendamento è stato ritirato.
Per la SLC questo stabilimento è importantissimo dal punto di vista politico, strategico e per la desertificazione industriale del territorio dove è insediato, noi continueremo a difendere i lavoratori dell’IPZS e la lotta la faremo alle lobby.
Il sindacato, anzi i tutti i sindacati, sono composti da uomini. E gli uomini che fanno attività sindacale sono uomini speciali, perché in ogni momento della giornata, in ogni giorno dell’anno si mettono al servizio degli altri. Noi sindacalisti siamo altruisti per vocazione e dobbiamo essere capaci di comprendere, persuadere, immaginare compromessi che soddisfino meglio i desideri di ciascuna parte. Oltre a queste caratteristiche etiche non dobbiamo mai tralasciare anche la cura della salute fisica, perché per resistere con la propria volontà al Potere dobbiamo essere forti, sani, equilibrati. Non sono ovvietà. Una buona dieta, l’esercizio fisico, la prevenzione medica sono importanti per noi quanto tutte le altre attività intellettuali. Inoltre dobbiamo sempre saper gestire il tempo, la più grande ricchezza immateriale della vita. Il tempo scorre velocissimamente e nel tempo noi agiamo, pensiamo, amiamo, lavoriamo e quando abbiamo molto tempo alle spalle vuol dire che siamo invecchiati.
In ultimo voglio ricordare un Settore, che grazie all’accordo quadro del 29 luglio sulla contrattazione collettiva regionale di lavoro nel settore artigianato sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil Puglia, Confartigianato e Cna, può enucleare grandi potenzialità e che ci deve mettere in condizione di rafforzare la nostra rappresentanza in questo impegnativo e importante comparto produttivo della nostra regione.
Questo Congresso, per la Slc, è un momento di cambiamento dal vecchio gruppo dirigente al nuovo, che si sta insediando. Molti compagni stanno lasciando la nostra Organizzazione e, a tal proposito, invito tutti le compagne e compagni delegati a fare un grande applauso al compagno Tonino, che per tutti noi è stato un maestro, innanzitutto di vita, e poi di sindacato. Grazie Tonino e auguri per i tuoi prossimi impegni.
Ogni avvicendamento è anche momento di bilanci. Nel lontano 1996, anno di accorpamento, la Slc Puglia, dal punto di vista organizzativo era sui 2400 tesserati. Oggi – dato dicembre 2013 – chiudiamo con oltre 5800 iscritti.
Solo alcuni numeri. Nelle Poste siamo la regione in Italia con più iscritti in rapporto agli applicati e Bari, in assoluto, ha il record di iscritti. Nelle TLC abbiamo oltre 2000 iscritti su solo tre province: Bari, Taranto Lecce. In questo congresso abbiamo rinnovato il nostro gruppo dirigente. L’età media dei nostri direttivi e sotto i 40 anni, abbiamo tre segretari generali sotto i 35 anni – Gigia Bucci segretaria generale Bari, Andrea Lumino segretario generale Taranto e Vincenzo Montrone segretario generale della BAT – eletti non perché giovani, ma perché hanno dimostrato di essere bravi e pronti a queste responsabilità.
Siamo forse una delle poche regioni ad aver accorpato livelli congressuali territoriali – infatti con questo congresso sono stati unificati Lecce e Brindisi – affidando la direzione politica di questo nuovo soggetto politico sindacale al compagno Totò Labriola, di provata esperienza e capacità. Inoltre ci siamo ripromessi, nel corso di questi quattro anni, in presenza di condizione organizzative, di accorpare la BAT con Foggia. I nostri rapporti con i rispettivi centri regolatori confederali sono improntanti alla collaborazione e alla lealtà, consci come siamo, che oggi, rispetto alle vertenze, se non c’è un rapporto sinergico con la Confederazione siamo tutti più deboli. Con la SLC Nazionale il confronto del nostro gruppo dirigente è continuo e libero e deve rimanere scevro da qualsiasi condizionamento. La nostra forza è stata e deve essere sempre improntata sul pluralismo delle idee, il sale della democrazia.
Nei mesi scorsi abbiamo realizzato, finalmente, il nostro sito regionale, che solo nei primi mesi sta registrando uno straordinario successo con oltre 6000 contatti. Grossi sforzi sono stati fatti, in questi anni, in materia di trasparenza contabile, sulla regolarizzazione dei rapporti di lavoro e su tutte le canalizzazioni previste. E oggi possiamo affermare che la SLC è stata messa in sicurezza.
Il bilancio, come da me evidenziato, è fortemente positivo e lascia una pesante responsabilità al nuovo gruppo dirigente. Sono sicuro che questa nuova guida politica sarà capace di raccogliere questa pesante eredità e saprà rilanciarla e traghettarla alla fine di questo ventennio.
Alla fine di ogni discorso, un buon oratore, cita sempre una frase, un pensiero, un motto di spirito che lasci un retrogusto di simpatia e arguzia negli ascoltatori. Cercavo uno slogan nei libri degli intellettuali che hanno guidato il nostro movimento, per rispetto della tradizione. Invece gli occhi si sono soffermati sui proverbi di Salomone, conservati nell’Antico Testamento.
Non negare un beneficio a chi lo domanda
Se è in tuo potere di farlo.
Non dire a un altro: “Va’ ritorna, te lo darò domani
Se tu hai ciò che ti chiede.”
Non meditare di fare del male al tuo prossimo,
che dimora sicuro presso di te.
Non litigare inutilmente con nessuno,
se non ti ha fatto nulla di male.
Grazie per l’attenzione, cari compagni.
Viva il lavoro, viva la lotta per il rispetto dei diritti, viva il sindacato, viva la CGIL.