(Di Maria Pia Ferrante)
Nasceva un oggi del 1947, Dave-David-Ziggy-duca bianco, in qualunque modo tu voglia chiamarlo non sarà mai lui. Re indiscusso dell’arte della musica e della musica dell’arte; ai più conosciuto come David Bowie (e sembra di udire una standing ovation).
Ha plasmato le coclee di intere generazioni dagli anni 60 ad oggi. Ci è riuscito con la sua presenza, ci riesce con la sua assenza. Così influente da dedicargli una mostra al Victorian Musium di Londra. Una mostra all’uomo, della terra, dello spazio. Perché il primo David è un po’ il suo Ziggy che a metà degli anni 70 decide di sparire, promettendo una uscita definitiva dalle scene. Abbandona gli Stati Uniti per liberarsi dalle catene in cui la nuova industria cinematografica stringe, per recarsi a Berlino, si narra, e fuggire dalle droghe, non Iggy Pop; incredibile; imperdibile. Ma quel periodo, a cavallo della caduta del muro, rappresenta il più produttivo, elettrizzante della carriera di un uomo, un arte. Mino, pittore, attore, teatrante, tutto racchiuso nel DNA di una congiunzione astrale d’essere e non essere. Scopre nuovi suoni, naviga l’onda prodotta dai neonati masterizzatori. Sonorità meccanica, fluttosa, oltre le chitarre, oltre gli strumenti. Artista; in qualunque modo tu voglia chiamarlo non sarà mai lui. O forse è una parte di ciascuno di noi, quella Rebel, Rebel.