Scene e aneddoti di un mondo e di un cinema che non esistono più, rappresentati in piedi sul palcoscenico del Teatro Petruzzelli: al pubblico del Bif&st, il regista Pupi Avati si è mostrato non solo come un maestro di cinema, ma come un vero e proprio showman, capace di ostentare simpatia e maniere accattivanti.
“Al Bif&st ci sono già stato cinque-sei anni fa e devo ammettere che è cresciuto molto”, confessa mentre imbraccia la sua valigia per tornare a Roma, dopo una toccata e fuga di un giorno e mezzo. “Bari? Una delle città più belle, accoglienti e sviluppate del sud Italia, quando ci vengo mi sembra di stare in California”.
Nel corso della mattinata, Pupi Avati ha parlato della sua passione per il clarinetto e degli esordi come musicista di jazz, messo quasi subito all’angolo nella sua orchestra bolognese da un ragazzo bruttino, poco simpatico, ma straordinariamente talentoso di nome Lucio. Che poi è diventato il grande Lucio Dalla, musicista, cantautore e interprete che tutti conosciamo e amiamo. “Così ho considerato l’ipotesi di non suonare più”, ammette, “una sofferenza incredibile per un ragazzo di 23 anni, che però è servita nella misura in cui mi ha fatto capire di non avere il talento necessario per continuare su quella strada”.
Poi ha interpretato, con grande senso dell’umorismo, gli amori nella Bologna degli anni ’50, i balli stretti stretti con le ragazze più brutte delle feste e, quindi, l’incontro con la donna più affascinante della citta, che è cominciato con un inganno, ma che poi si è trasformato in una storia d’amore lunga più di cinquant’anni – tutte scene che ritroviamo nei suoi film “Una gita scolastica”, “Regalo di Natale”, “Gli amici del bar Margherita”-. “È una cosa inedita per un festival quella che sto per dire”, dichiara, commuovendo tutti i presenti, “l’avere avuto accanto a me la stessa persona per tutti questi anni, anche con turbolenze e separazioni, ha fatto sì che io scoprissi tutta la bellezza che c’è dentro una storia d’amore”.
Tre sono stati gli incontri della sua lunghissima carriera che il regista ha voluto ripercorrere col pubblico. Quello con Federico Fellini, che da giovane inseguiva come una stalker per le vie di Roma e il cui “Otto e mezzo” ha determinato la sua consacrazione al cinema. Quello con Vittorio De Sica, a cui deve il più grande insegnamento di vita e di cinema: “Maestro, io credo che lei sia tra i pochissimi registi che riescono a ottenere sempre il massimo dai loro attori, anche da quelli secondari. Come ci riesce?”, chiese il giovane e intimidito Avati. Una sola parola fu la risposta di De Sica, avvolto nel suo abito di lino bianco: “Amandoli”.
Poi, l’incontro con una ragazza bruna e piena di ardore, che si fermò per una giornata intera fuori dal set di “Thomas e gli indemoniati” (1970) in attesa che il regista la notasse e le concedesse la parte della protagonista, ovvero la prima chance della sua carriera: quella ragazza era Mariangela Melato. E qui l’emozione del pubblico si è sciolta in un caloroso applauso.
Infine, un riferimento al suo prossimo film. Sarà un ritorno al cinema fantastico, legato al mondo contadino e alla sua sacralità, un genere che Avati amava da bambino. Racconterà la storia delle bare di due fratelli, che riemersero dalla terra dopo l’alluvione del Polesine del 1951 e che poi scomparvero nel nulla, le uniche che non furono mai recuperate”.