Da Dante Alighieri a Frank Sinatra , il 2015 è un anno denso di ricorrenze significative. Non potevamo certo dimenticare di omaggiare un cult movie della commedia all’italiana, attraverso il ricordo di uno dei più grandi attori che la nostra penisola abbia mai avuto. Di quegli attori che, ahinoi, quasi non se ne vedono più.
Il 1975 fu un anno incredibile per Vittorio Gassman. Con “Profumo di donna”, l’attore portò a casa il David di Donatello, il Globo d’oro e il Premio come Migliore interprete maschile alla 28esima edizione del Festival di Cannes. Quest’ultimo, lo strappò a Dustin Hoffman per il film “Lenny”, la storia del comico statunitense Lenny Bruce.
Non riuscì, invece, ad aggiudicarsi l’Oscar per un soffio; ma diciassette anni dopo, sarebbe stato Al Pacino a pareggiare i conti con quel fazzoletto di mondo, grazie a un remake hollywoodiano.
“I ricordi che ho sono uno squarcio di una piazza di Torino, un pezzo di Golfo di Napoli e poi la complicità con Dino Risi”, commentò Gassman, divenuto ormai canuto, “erano anni di felicità assoluta”.
Nella pellicola che porta la firma di Dino Risi, l’attore veste egregiamente i panni del cieco Fausto. Un uomo solo e cinico, che compie un viaggio da Torino a Napoli con l’assistenza del giovane soldato Ciccio (nel film, l’attore è Alessandro Momo, reduce dal successo della commedia erotica “Malizia”). È il suicidio con un amico cieco come lui il tacito obiettivo del viaggio; ma a Napoli, Fausto scopre un egoistico attaccamento alla vita, anche grazie all’amore e alla remissività di Sara (l’interprete è Agostina Belli, che dopo questo ruolo diventò una delle attrici più ricercate dai cineasti francesi).
In “Profumo di donna”, la maestria registica di Dino Risi, in cui molti riconoscono il massimo rappresentante del cinema di quegli anni, si fonda perfettamente con l’interpretazione goliardica e commovente di Vittorio Gassman. Ma all’ottimo risultato finale concorrono, senza ombra di dubbio, anche il talento letterario di Giovanni Arpino -la sceneggiatura, lo ricordiamo, è tratta dal suo romanzo “Il buio e il miele”- e la catturante colonna sonora di Armando Trovajoli. Chi ha vissuto quegli anni, rivela di non aver mai potuto dimenticato quelle note struggenti.
Ne emerge, in definitiva, un film che è molto più che la semplice storia di un disabile bastardo. È un ritratto di solitudine e cinismo in cui ci sono, a quarant’anni di distanza dall’uscita nelle sale, anche tutte le pennellate e le sfumature dei giorni nostri.
“Fausto è il simbolo del nostro rumoroso giocare a mosca cieca, la sua grottesca iattanza traduce la nostra fragilità, l’amore di Sara indica il costo e il conforto della tenerezza disinteressata”, commentò il giornalista Giovanni Grazzini sul ‘Corriere della Sera’, il 23 dicembre 1974.
Come non intravedere, in questa definizione, qualcosa di molto intimo che si nasconde in noi?
Tra tanta meraviglia, però, non poteva mancare una nota stonata. L’attore Alessandro Momo -chioma color corteccia, volto pudico e occhi teneri- morì in un incidente stradale pochi giorni dopo la fine delle riprese, a soli 18 anni, senza poter godere di quel successo straordinario.