Con Bill Nighy, Imelda Staunton, Dominic West, Paddy Considine, George MacKay. Gran Bretagna 2014.
La sconfitta sindacale più dolorosa del ‘900 fu quella subita dai 160 mila minatori inglesi che si erano opposti alla chiusura delle miniere di carbone ordinata da Margaret Thatcher, storicamente l’unico premier senza pisello del Regno Unito. Lo sciopero durò un anno, ci furono scontri durissimi tra operai e crumiri, la signora Thatcher autorizzò la polizia a reprimere violentemente i picchettaggi organizzati dalle Trade Unions. Alla fine della lotta (marzo 1985) una ventina di cave furono chiuse, tantissime famiglie finirono in povertà e quella donna poté vantarsi di aver risolto con fermezza una scelta economica che cambiò la faccia all’Inghilterra. La Thatcher è morta nel 1983; supponiamo che sia stata una delle politiche più odiate dalle classe operaia. Conservatrice, monetarista e liberista era stata soprannominata dai russi ‘Iron lady’; una metafora azzeccata, visto che proprio grazie a lei il carbone inglese non fu mai più fuso col ferro, per fabbricare ghisa e acciaio. Quando la ‘Lady di ferro’ fu cacciata, dopo 11 anni e mezzo di governo, pianse davanti alla porta della residenza governativa. Quelle lacrime furono poche gocce rispetto al fiume di lacrime popolari, sgorgate per colpa delle sue decisioni (senza dimenticare Bobby Sand, Le Falkland ecc.).
Dopo la semplificazione storica, facciamo la critica a ‘Pride’: questo film da collezione ricostruisce in modo vigoroso e spigliato una delle più tenere manifestazioni di solidarietà che i minatori ricevettero durante la loro lunghissima assenza dal lavoro. Nel 1984 Un gruppo di gay e lesbiche londinesi, con grande coraggio civile, decisero di raccogliere fondi per gli scioperanti. (Da qualche parte è scritto che si accumularono circa 20 mila sterline). Così facendo, due parti impure delle società riuscirono a scambiarsi un’intensità affettiva che dopo 30 anni il valoroso regista Matthew Warchus ci ha fatto conoscere a fondo. Sappiamo perfettamente che questo film non dice tutte le verità storiche e semplifica i fatti veri, ma in due ore non si può sintetizzare un anno di vita travagliata. Sappiamo che la solidarietà verso i minatori fu molto più variegata, arrivò da tutto il mondo e sappiamo anche che il finale politico fu umiliante per il sindacato unito. Ma il cinema non deve fornirci ricerche storiche. A un regista è permesso di trattare questi temi se dentro l’opera ci mette gli ingredienti che piacciono allo spettatore, perché servono gli incassi. Dunque bisogna ‘sopportare’ i personaggi belli, i colpi di scena studiati, le conseguenze prevedibili, i linguaggi familiari, le umiliazioni moderate e il lieto fine. Un film deve divertire, non è un atto rivoluzionario. I sapienti recensori a pagamento hanno accusato il regista di aver messo in scena gay che ballano, minatori rozzi e omofobi, mamme infelici che non accettano i figli ricchioni ecc. E che c’è di finto in tutto questo? Basta guardarsi attorno stamattina e scopriremo che i personaggi della commedia sono perfettamente corrispondenti al reale.
Mark Ashton, l’irlandese che fondò il Lgsm, «Lesbians and Gays Support Miners» è vissuto per davvero, grazie a quel Dio che se lo è chiamato troppo presto tra gli angeli. Ora ci appare nel montaggio digitale come un eroe, ma la forzatura estetica è utile per trasmetterci l’insegnamento morale: la solidarietà verso i più deboli. Il cinema, si sa, è una gentile finzione: se avessero recitato i veri sindacalisti e i veri omosessuali di questa fantastica storia non saremmo andati a vederli, pagando 7 euro per annoiarci. La coerenza è obbligatoria solamente nella vita. ‘Pride’ ha avuto successo e se lo merita tutto. Il tema, l’interpretazione, la sceneggiatura, il commovente finale ci incoraggiano a camminare verso mete che, quando siamo soli, ci sembrano irraggiungibili. All’uscita della sala vi sentirete tutti gay o tutti minatori, e questo è positivo. In Italia, da anni, si perdono milioni di posti di lavoro, ma gli scioperi durano il tempo di una corsa a Roma. Forse è troppo poco per cambiare. Forse all’Italia farebbe bene un ventennio di puro ‘thatcherismo’ per ritrovare la propria coscienza di classe.