Una drammatica e moderna Odissea quella narrata da Christian Di Domenico nel suo imperdibile monologo dal titolo “Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari”, tratto dall’omonimo libro di Fabio Geda, con il quale ha curato anche l’adattamento teatrale e la regia.
È la storia, dolorosa e intensa, di Enaiatollah Akbari, un bambino afghano di etnia hazara costretto a fuggire – per volere di sua madre che non può più nasconderlo – dopo che suo padre è stato ammazzato e derubato da alcuni banditi durante una missione per conto di un ricco e losco mercante, il quale pretende proprio il ragazzino come risarcimento del danno subito. Mamma e figlio partono e arrivano a Quetta, in Pakistan; qui sua madre prima di abbandonarlo e ritornarsene a casa, gli strappa una triplice promessa: non deve drogarsi, non deve mai brandire un’arma e non deve rubare.
Non ha nulla con sé il piccolo Enaiat, a parte una lettera – che in realtà non è mai esistita ma è un’invenzione teatrale voluta dallo stesso Di Domenico – scritta da suo padre per lui la sera prima di morire. A dieci anni – probabilmente, perché nella regione dove è vissuto, non esiste l’anagrafe – è costretto a diventare immediatamente adulto e pensare alla sua sopravvivenza: comincia ripulire le fogne e portare chay ai negozianti in cambio di vitto e alloggio; poi a vendere di tutto, dalle gomme da masticare agli accendini, fino a quando decide di andare in Iran, dove trascorre circa tre anni a lavorare – abusivamente – nei cantieri edili. È davvero dura per lui scaricare sabbia e pietre, ma non ha altra scelta.
Dall’Iran Enaiat decide quindi di andare in Turchia, poi, dopo una tragica traversata in canotto con altri tre piccoli amici (uno perderà la vita), arriva sulle sponde della Grecia; da qui stipato in camion e treni, assieme a centinaia di disperati come lui, dopo aver subito le sofferenze più atroci – sete, fame e malattie –, giunge a Venezia. Il suo obiettivo è Roma, a Ostiense, dove gli hanno raccontato che troverà la sua gente e dove lui spera di trovare il suo amico d’infanzia. Riuscirà a rintracciarlo a Torino, dove Enaiatollah, ormai quindicenne incontra la famiglia che gli cambierà la vita: andrà a scuola, imparerà la lingua, otterrà il permesso di soggiorno. E soprattutto, sarà amato.
Il teatro narrazione di Christian Di Domenico – che avevamo già apprezzato nell’intenso “U Parrinu. La mia storia con Padre Pino Puglisi ucciso dalla mafia” – è emozionale, fatto di pancia, di cuore, di gestualità che sopperiscono ampiamente alla scarna scenografia. Un chiaro messaggio di fratellanza – nel suo senso più laico –, perché tutti hanno diritto alla libertà e ad avere un futuro.