Se n’è andato a settantasette anni, in silenzio e lontano dai clamori del red carpet, Michael Cimino. Visionaria, folle e breve apparizione nel mondo della settima arte: solo sette film in quarant’anni di carriera. Eppure noi amiamo i visionari e i folli. Cimino aveva tanti difetti e uno in particolare che i produttori mal digerivano: non riusciva a stare dentro le due ore di film. Eccezion fatta per il suo primo film “Una pellicola calibro 20 per lo specialista” (1974) di 115 minuti e “Ore disperate” (1990) di 105 minuti, di 122 minuti il suo ultimo “Verso il Sole” (1996), “Il Siciliano” (1987) durava 146 minuti nella versione integrale, di 134 minuti era “L’anno del Dragone” (1985), di 182 minuti “Il Cacciatore” (1978) e addirittura di 216 minuti il director’s cut (ridotti, si fa per dire a 149 nella versione tagliata) de “I cancelli del cielo”, capolavoro-fiume del 1980, che fu un vero disastro commerciale e che fece sprofondare la United Artists e la sua affidabilità. Basti pensare che per una sola scena, quella a Wallace, ci mise più di tre mesi per allestire il set: oltre mille comparse, centottanta cavalli e un treno d’epoca che vi arrivò dopo aver attraversato cinque stati.
Ma per lui «fare un film è una guerra che ti obbliga a combattere, anche se non ne avresti voglia. E per vincerle certe battaglie, occorre una gran sicurezza dei propri mezzi». E Cimino credeva tanto nei suoi, e forse fin troppo in quelli dell’establishment, che spesso gli hanno voltato le spalle e gli hanno puntato il dito contro, ritenendo le sue spregiudicatezze “esagerate”. E, diciamolo pure, Cimino era uno che se le andava a cercare: Hollywood che grida allo scandalo per la celebre scena-metafora della roulette russa de “Il Cacciatore”; criticato di razzismo dalla comunità sino-americana per come ha dipinto i cinesi ne “L’anno del Dragone”; da quella italiana per aver ridicolizzato la figura di Salvatore Giuliano (un inespressivo Christopher Lambert, aggiungiamo noi) ne “Il Siciliano” . Cimino ha saputo spaziare dal western al noir, dal melodramma al bellico. Il suo stile era unico, con sapiente uso dei ralenti e dei flashback, e la sua macchina da presa era sempre una sorpresa, ora campi lunghissimo dal sapore di libertà ora con primissimi e intimissimi primi piani.
Ma è del suo film culto che vogliamo parlarvi, “Il Cacciatore”: cinque premi Oscar (al film, a Cimino come regista, a Christopher Walken come non protagonista, al sonoro e al montaggio) su nove candidature (De Niro e la Streep, la fotografia e la sceneggiatura), anticipati dall’effetto bomba al Festival di Berlino. Con questo film Cimino non condannava per niente l’intervento americano in Vietnam, la stessa Jane Fonda, pacifista incallita dichiarò, dopo averlo visto: «Con questo film Michael Cimino si pone alla destra di John Wayne». Il film è una visione, tremenda, delle conseguenze interiori che quella guerra aveva causato, prendendo in esame le storie di tre soldati della comunità ucraina di Clairton. L’amore per la patria, sofferenze e ferite comprese. Un film duro anche da girare: lo stesso De Niro, anni dopo, ne parlò come del film che più lo aveva esaurito fisicamente e mentalmente. Mentre giravano la scena del salvataggio con l’elicottero, infatti, sia lui sia Savage si ferirono seriamente e le loro urla furiose furono proprio vere. Si racconta, ancora, che il regista, sempre in lotta con la produzione che era contraria alla violenza di molte sequenze girate (dal matrimonio alla tortura, dalle scene di guerra ala caccia), tagliava durante il giorno le riprese che non volevano, per poi rimontarle di notte. Anche questa era una sua personale battaglia che vinse dato il successo planetario che accolse il suo film.