Nato a Vienna il 5 dicembre 1890, leggenda vuole che abbia avuto una gamba di legno che non ammise mai di avere, in seguito al ferimento sul Fronte nel 1916. Entrò nel cinema come sceneggiatore per poi passare alla regia, grazie al suo genio visionario che lo rese un maestro dell’inquadratura e del montaggio. Collezionista dell’arte primitiva, non si separava mai dal suo monocolo (nel 1964, quasi del tutto cieco, fu il presidente del Festival di Cannes), né dal suo sarcasmo. Sua la frase: «Il Cinemascope? Buono solamente per i funerali e per i serpenti». Tutto questo è stato Fritz Lang.
Il suo cinema si è spesso basato sul doppio (il così detto Döppelganger, tanto caro all’Espressionismo tedesco), sulla schizofrenia e sulla natura pessimista dell’uomo e sul suo lato scuro sempre a un passo dallo sbucare, in silenzio, da sotto il letto o alle spalle. Lang riusciva a seminare incubi di quotidiana normalità, in quel suo sentirsi perennemente in fuga, che sia dalle oppressioni della Germania nazista o dalle sue origini ebraiche poco importa. Noi lo immaginiamo anche in fuga da una certa cinematografia tipicamente hollywoodiana, regalando a noi cinefili e alla storia della celluloide di tutti i tempi film eccelsi. Due di questi esempi sono “Metropolis” e “M-Il mostro di Düsseldorf”.
“Metropolis”, girato nel 1926 è senza dubbio il più grande kolossal muto (e non solo) mai girato, destinato a influenzare tutto il cinema da lì in poi, fino ai giorni nostri: il tema della società del futuro senza umanità o delle macchine che domineranno il mondo, infarcirà pellicole a tutto andare. Senza contare che “Metropolis” è diventato uno dei film che vanta più citazioni, dalla pubblicità alla musica al cinema stesso: il videoclip dei Queen, lo stesso “Blade Runner” di Scott o “Star War. La minaccia fantasma” di Lucas, a uno degli abiti usati dalla Kidman in “Moulin Rouge”. Diciannove mesi di riprese, trecentodieci giorni e settanta notti lavorativi, seicentomila metri di pellicola impressionata, più di trentaseimila comparse, tra donne, uomini e bambini. Costo totale: oltre cinquanta milioni di marchi tedeschi dell’epoca. Uno sproposito, mai recuperato, che provocò, manco a dirlo, la bancarotta della casa di produzione.
Il film di Lang parte da un assunto preciso: «Il cuore deve mediare tra il cervello e le mani. E per farlo è necessario un mediatore». Il cervello è rappresentato dai ricchi padroni che vivono in grattaceli altissimi, quasi a sfiorare il Paradiso; le mani, dal mondo degli operai, sprofondato nelle viscere infernali; l’anello di congiunzione (il cuore) sarà proprio il figlio del padrone, innamorato della popolana Maria. Una trama dal retrogusto biblico, con tanto di Dio (il denaro) e dei suoi servitori; con tanto d’Inferno profondo, di Apocalisse (la rivolta degli operai e la distruzione delle Macchine che li rendono schiavi), e di Messia (rappresentato da una donna però, Maria). Un film attualissimo, ipnotico nel suo splendido bianco e nero (portato alla luce dal restauro della pellicola), affascinante nelle sue visionarie scenografie e nei suoi effetti speciali, davvero all’avanguardia per l’epoca. Impresso nella pellicola e nei nostri cuori lo sguardo della robotrix creata dallo scienziato cattivo. Una maschera funeraria capace di incutere terrore nonostante i suoi novant’anni.
Quella dualità di cui si accennava in apertura è esplicitamente e splendidamente narrata in “M-Il mostro di Düsseldorf”, girato da Lang nel 1931. Da brividi già la sequenza iniziale: un gruppo di bambini che gioca alla conta e che canta la filastrocca: «Scappa scappa monellaccio, se non viene l’uomo nero col suo lungo coltellaccio, per tagliare a pezzettini proprio te!». Basato su una storia vera, quella di Peter Kurten, detto il vampiro di Düsseldorf (interpretato dall’eccezionale Peter Lorre), un pedofilo assassino, il film vanta una geniale idea di sceneggiatura: la criminalità, agitata per le troppe indagini a caccia del mostro, decide di farsi giustizia da sola e togliersi dal collo il fiato della polizia. Finirà per catturarlo e per fargli anche un surreale e crudele processo. «Quando cammino per le strade – confessa il mostro assassino – ho sempre la sensazione che qualcuno mi stia seguendo, ma sono invece io che inseguo me stesso. Silenzioso, ma io lo sento. Spesso ho l’impressione di correre dietro a me stesso. Allora voglio scappare, scappare, ma non posso fuggire! Devo uscire ed essere inseguito. Devo correre, correre per strade senza fine. Soltanto quando uccido, solo allora… E poi non mi ricordo più nulla. Dopo, dopo mi trovo dinanzi a un manifesto e leggo quello che ho fatto. E leggo, leggo. Io ho fatto questo? Ma se non ricordo più nulla! Ma chi potrà mai credermi? Chi può sapere come sono fatto dentro? Che cos’è che sento urlare dentro al mio cervello?». Insomma un malvagio capro espiatorio per pulire le anime non meno malvagie della società.
Primo film sonoro prodotto in Germania, “M” trova il suo fulcro proprio sull’utilizzo, fantastico, delle musiche da parte di Lang: sarà proprio fischiettando la suite di Grieg che il mostro cadrà in trappola (una scena ripresa in chiave ironica dal geniale Woody Allen nel suo capolavoro “Ombre e Nebbia”) e sarà catturato, grazie ad un cieco. Due le chicche per i cinefili. Inizialmente il film avrebbe dovuto intitolarsi “Un assassino fra noi”; questo titolo provocò un equivoco gigantesco con i nazisti, che erano in ascesa politica e che credettero si riferisse a loro; dopo aver minacciato la produzione di censure e interventi, Lang finì per cambiare il titolo. Prima di essere distribuita la versione restaurata, ne circolò una col finale mutilato: non si è mai saputo se nella versione integrale l’assassino sia giustiziato o meno.