(di Francesco Monteleone)
“Zingaro italiano!” Chi è stato all’estero da emigrante sa bene quanto era difficile sopportare quell’insulto, gridato per strada dai nostri ‘fratelli’ europei. Una parola terribile che ti sagomava come “vagabondo” “apolide” “trasandato” ecc. Gli uomini più orgogliosi reagivano con le mani; i più assuefatti sopportavano a occhi bassi il disprezzo straniero, pur di vivere in un posto che almeno il lavoro lo garantiva, rispetto alla propria patria traditrice. Ma anche chi non ha provato “siccome sa di sale lo pane altrui” faccia attenzione a questo film. Più volte si ritroverà la faccia bagnate di lacrime, sentendosi totalmente coinvolto in tante contraddizioni, con l’anima e col corpo. Sulla terra, solo gli esseri umani piangono, per eventi tristi ma anche per circostanze liete. Questo film ne mette insieme così tanti che asciugarsi volta per volta è un inutile cedimento. Dobbiamo dire cento, anzi mille volte ‘grazie’ a Stijn Coninx, il regista nato a Neerpelt, cittadina fiamminga del Limburgo, che ha ricostruito prodigiosamente la condizione degli italiani in Belgio, quando a seguito degli accordi bilaterali del 1946, l’Italia scambiò la sua forza-lavoro con il carbone. Tanti nostri compaesani, ammassati nelle baracche vicino alle miniere, riuscirono ad allevare i figli, scendendo ogni giorno 1 km nelle viscere della terra, senza lamentarsi di un sacrificio che nessuno storico sa descrivere a parole. Scusate il personalismo: da bambino ricordo Il mio vicino di casa, un vecchio minatore tornato in Puglia, dopo 20 anni di scavi. Quando arrivava l’estate lui rimaneva in canottiera. La spalla e le braccia erano piene di macchioline nere. Una volta mi spiegò che erano i frammenti di carbone entrati nella pelle e rimasti lì dentro, per sempre.
L’ispirato Stijn Coninx ha raccontato la prima metà della vita di Rocco Granata, un piccolo testardo ribelle strappato alla scheletrica Calabria e innestato a Genk, la città belga di lingua olandese dove ancora oggi circa un terzo della popolazione è di origine italiana, conseguenza della fortissima emigrazione. Quel Rocco, suonando la fisarmonica, compì il miracolo di comporre una canzone d’amore dedicata ad una incantevole ragazza straniera, immediatamente diventata un successo mondiale.
È un melodramma, è strappalacrime… Il film appartiene al genere che gli americani chiamano “success story” (la canzone “Marina” è stata un hit che tutti cantano ancora in ogni angolo del mondo). Quante semplificazioni da parte dei critici a pagamento che non vedono oltre i loro pregiudizi professionali. Questo film è un severo capitolo della storia d’Italia, non la ricostruzione di un colpo fortunato nel mondo della musica leggera. È soprattutto un incoraggiamento a tutti i virtuosi che, essendo nati poveri, non si rassegnano a essere inabili all’arte. È anche una grandissima storia d’amore, unico legame intricato con la felicità. Matteo Simoni, il giovane attore belga nato da sangue italiano, ha un volto che sembra dipinto da Mattia Preti. Non ha la fatua galanteria dei seduttori simpatici, con le scarpe rotte. Matteo ha 29 anni, è un giullare che recita senza accessori folkloristi, elevando il cinema a simbolo del riscatto. Crediamo che al regista bisognerebbe dare la nostra cittadinanza onoraria. Stijn ha la dolcezza sociologica di Tornatore e l’eccezionale impegno morale di Kean Loach. Ha fatto recitare Luigi Lo Cascio e Donatella Finocchiaro in dialetto calabrese, senza rimanere mai impigliato in falsi luoghi comuni. Ha dimostrato di conoscere profondamente il cuore degli italiani, meglio di tanti registi italiani che ci ricoprono di ruggine. Non è un caso che questa opera superiore sia stata co-prodotta dai Fratelli Dardenne. Non lasciate che tanto lirismo rimanga solamente tre giorni nelle sale, per far posto a tante commediacce da quattro soldi bucati.