Abbandonati (speriamo non per molto) i fasti hollywoodiani delle sue ultime produzioni “wuxia” (una sorta di “cappa e spada”), dall’avvincente “Hero” al drammatico “I fiori della guerra” (sul massacro di Nanchino), passando per gli sfavillanti “La foresta dei pugnali volanti” e “La città proibita”, Zhang Yimou ci regala questo piccolo gioiello dal titolo “Lettere di uno sconosciuto”.
Opera numero venti del maestro indiscusso del cinema cinese e non solo, la pellicola registra anche il ritorno alla direzione della sua musa per eccellenza, la meravigliosa Gong Li, con la quale aveva lavorato l’ultima volta ne “La citta proibita” del 2007.
Siamo nel 1966 in piena Rivoluzione Culturale. Mao Tse-Tung e il suo comunismo mobilitano tutti i giovani studenti, tra una scuola “spersonalizzante” e le aspirazioni artistiche che devono mirare esclusivamente a servire il partito. Quella raccontata, con delicato minimalismo, è una storia, piccola ma simbolica: quella di Feng (interpretata da Gong Li), un’insegnate che cresce da sola e con sacrificio la sua unica figlia Dan Dan (Zhang Hiuwen), aspirante ballerina che è costretta a subire umiliazioni artistiche per colpa di suo padre Lo, nemico della Rivoluzione Culturale e quindi del partito. Quest’ultimo, al ritorno dalla prigionia, scoprirà che sua moglie in seguito ad un’amnesia, non lo riconosce ed ha cacciato da casa la figlia. Non solo, sua moglie Feng lo aspetta alla stazione dei treni (lì dove lui è stato arrestato), ogni 5 del mese, armata di un cartello con scritto il nome di suo marito. L’uomo, ancora visibilmente innamorato di sua moglie, riuscirà ad avvicinarsi a lei attraverso la lettura (spacciandosi per un semplice vicino) le lettere da lui scritte durante la prigionia. Sarà, questo, l’unico disperato tentativo di continuare a vivere accanto alla donna amata, che, non riconoscendolo ma amandolo anch’essa, lo attenderà fino alla fine dei suoi giorni.
Tratto dal romanzo di Yan Geling, Yimou firma un film intimo, toccante, doloroso e denso di sguardi. Sofferenti e meravigliosamente intensi quelli di Gong Li, qui alla sua “prova di maturità” artistica, invecchiata ma sempre bellissima. Pieni di tenerezza e delicati quelli di Dao Ming Chen, nei panni dello sfortunato marito costretto a vivere il suo purgatorio terreno.
Splendida la fotografia, dai colori foschi, dove solo il rosso del costume da prima ballerina e quello del libretto di Mao, sventolato da studentesse con lo sguardo smarrito, fa da contraltare a tutto quel grigio che ispira tristezza e un sentimento di cupa oppressione. Ogni fotogramma è un quadro di perfezione: la desolazione degli interni della casa di Feng in contrasto con le scene caotiche alla stazione dei treni. Un tumulto di emozioni in cui si è trascinati, con delicatezza, anche mediante i tanti silenzi che attraversano la pellicola. Fino alla struggente sequenza finale, dove il gelo della neve invernale buca lo schermo e si scioglie, invadendo di bruciante tenerezza lo spettatore di fronte alle sagome dei due coniugi, ormai vecchi ma ancora insieme. In attesa, questa volta, di un ineluttabile destino.