“Antropolaroid”, titolo originale che prelude a una sorta di memoria visiva, scritto e interpretato da Tindaro Granata, è uno spettacolo pluripremiato. Giustamente, aggiungiamo. Probabilmente perché il testo, recitato con ritmo incalzante, non è mai ampolloso né tantomeno convenzionale; ma anche per il formidabile trasformismo di Granata, abile nel caratterizzare i vari personaggi, maschili e femminili, facendoli interagire tra loro nella costruzione delle trame del racconto, muovendosi in una scena totalmente nuda.
Si ride spesso, grazie alle incursioni folcloristiche di quel meraviglioso dialetto che è il siciliano. Ma non lasciatevi ingannare: “Antropolaroid” è soprattutto una storia che punta il dito ancora una volta contro la stagnazione, morale e sociale, di una Sicilia di gattopardiana memoria, in bilico tra il profumo aspro degli agrumi e quello dolce della zagara. Una stagnazione che si può scardinare anche seguendo la passione per la recitazione, così come ha fatto Granata.
Una storia che il protagonista ci racconta attraverso quattro generazioni (Francesco Granata, morto suicida nel 1925; suo figlio Tindaro, coinvolto in affari sporchi nel 1948; Teodoro, figlio di quest’ultimo e della tenace Maria, emigrato prima in Svizzera poi ritornato in patria con la sua sposa Antonietta; infine Tindaro – sì, proprio lui – loro figlio, nato nel 1978), servendosi di tradizioni, usanze, pettegolezzi, credenze e proverbi. E soprattutto l’insegnamento della vecchia bisnonna, divenuto il pilastro del magnifico testo: «Non si può avere bellezza, né fortuna, senza sofferenza».
(Visto all’Auditorium Bianco-Manghisi di Monopoli nell’ambito della Stagione di Prosa 2017/18 curata dall’Apad)