Se un film ti emoziona almeno 5 volte durante il suo svolgimento merita di essere visto perché a cinema, volente o nolente, andiamo per emozionarci, non per mummificare la nostra anima o i nostri testicoli di fronte a mielose e segose brutture registiche. Questa è la regola (totalmente arbitraria) che adottiamo come spettatori senza arte, né parte che si siedono volutamente lontano dalle persone (con i posti a sedere assegnati dal bigliettaio la maggior parte dei giovanissimi o degli anziani parla per tutta la proiezione).
Riprendiamo. Le commedie all’italiana rispetto a quelle francesi sono spesso da bocciare. I produttori caserecci scelgono una serie di temibili comici (un paio sono nati nella Puglia del nord) che ricevono un’inspiegabile ed entusiastica approvazione per le loro idiozie, nonostante facciano la peggiore propaganda possibile alle loro mamme.
Ebbene, Edoardo Winspeare va controcorrente; ci ha conquistati ottimizzando quella poetica pugliesità che i promoter (raccomandati) degli enti pubblici non porterebbero mai alla BIT di Milano: Paesi desolati senza nessun monumento storico; bar abbattuti dove i disoccupati bivaccano pure nei giorni festivi (Natale e Pasqua compresi); malandrini al ribasso che in religione conoscono solamente il Papa e Padre Pio; belle popolane oscillanti tra sogni e saldi; infine la meravigliosa campagna deturpata dai rifiuti industriali… c’è un sud che è ai vertici della penosità, a causa del mancato miracolo italiano.
Ebbene, l’ottimo Edoardo, con la sua arte, recupera l’altro Salento e lo ricicla in simpatia, senza moralismi e con tanta fantasia. Questo film lo si vive come un benevolo passatempo, interpretato senza enfasi e errori da Gustavo Caputo, Antonio Carluccio, Claudio Giangreco, Celeste Casciaro, Davide Riso ecc. ecc. E chi sono questi non trascurabili attori? Tutti semi-conosciuti o totalmente sconosciuti, grazie alla Vergine Maria.
Winspeare non ha ci ancora fatto un capolavoro, ma in ogni sua nuova storia emerge incessantemente una miglioria registica che avrà, come scadenza, un grosso premio internazionale. Accettiamo scommesse su questa profezia.
Perché ci è piaciuto ‘La vita in comune’?
Perché la scena non è la costa gallipolina profanata e saccheggiata da centinaia di giovani alla ricerca di belle fighe. L’unica femmina licenziosa e dissoluta è una puttana di media età, vestita come la casta Penelope, e non ci farebbe vergognare se fosse nostra zia. Non si vedono i criminali della Sacra Corona Unita, ma due fratelli rottamati, che magari fossero tutti così i delinquenti: il più spinto possiede una violenza giocosa e appare sconcio, senza essere volgare. L’altro ha l’invidiabile virtù dell’ascolto; quando finisce in galera per l’azione correttiva, invece di imbastardirsi con i napoletani, si mette a scrivere versi bucolici, che all’Accademia dell’Arcadia gli procurerebbero un’espulsione immediata. Pareggia il conto dei Brutti e Cattivi il sindaco ‘buono’ che si dedica a far crescere la qualità delle sue visioni con la letteratura, con l’amicizia e con la voglia d’amore.
Dato che non sono stati pagati i torturatori di sceneggiature, questo film ha un’abbondante serie di piccolissimi colpi di scena, senza un finale a sorpresa; eppure merita l’8 in pagella per due ragioni:
- Recupera l’altissimo valore estetico del dialetto pugliese.
- Sintetizza, nella purezza delle immagini, il valore divino della natura, anzi del Creato, visto che Winspeare non sembra filosoficamente spinoziano.
Il Comune nel quale è ambientata questa favola di persone, animali e cose si chiama ‘Disperata’, ma in un postaccio del genere non ci si sente più in esilio, se c’è chi sa educare i cittadini al bello, alla correttezza, all’attenzione agli altri.