I film di Woody Allen hanno il gran pregio di spaccare a metà la critica e il pubblico. Non fa eccezione anche quest’ultima pellicola dal titolo “La ruota delle meraviglie”, che a nostro umile parere è un gioiello da non perdere, l’ennesima perla inanellata da quel piccolo genio di un ebreo. E sfidiamo chiunque, dopo 48 pellicole, a mantenere così alto il livello. Certo, non siamo ai livelli di due capolavori come “Interiors” o “Match Point”, ma ci inchiniamo ancora una volta alla sua maestria, a una sceneggiatura asciutta ma perfetta, a una fotografia fantastica (il “nostro” premio Oscar Vittorio Storaro, giusto per gradire), a una scenografia impeccabile e, soprattutto, alla direzione insuperabile del cast.
Su tutti incanta Kate Winslet (ingiustamente ignorata ai Golden Globes, speriamo che quelli dell’Accademy sappiano riparare al torto), gigantesca nei panni di Ginny, moglie frustrata e nevrotica di Humpty, interpretato da un irriconoscibile Jim Belushi (bravissimo in un ruolo insolitamente drammatico). Il quartetto di interpreti si completa con un simpatico e guascone Justin Timberlake e una travolgente Juno Temple, nel ruolo della tenera e disincantata figliastra.
In breve la trama. Coney Island, anni Cinquanta. Ginny, sposata in seconde nozze con il giostraio Humpty e con a carico un figlio piromane, è una donna insoddisfatta: fa la cameriera quando invece sogna la carriera di attrice, non è innamorata di suo marito ma è lo è follemente del bagnino Mickey, un uomo colto che aspira a diventare drammaturgo. A peggiorare tutto arriva Carolina, figlia di Humpty, che è in fuga dagli scagnozzi del marito mafioso. Quando Mickey conosce Carolina e se ne innamora perdutamente, il castello di carte di Ginny crolla definitivamente.
Un film fatto di seducenti luci e ombre, che Storaro sapientemente sfoggia con tagli, angolazioni e cambiamenti all’interno della stessa scena (e qui la grandezza): colori caldissimi che improvvisamente si raffreddano, trascinando lo spettatore su un’altalena di emozioni, anzi, proprio su quella “Wonder Wheel” del titolo.
Dicevamo della sceneggiatura. Si ride poco, ma i dialoghi sono musica per le orecchie, per ritmo, intelligenza e profondità. Siamo nei paraggi della tragedia greca (tanto amata ed elogiata in “La Dea dell’amore”), dei grandi maestri dell’assurdo e dell’incomunicabilità, Ionesco e Osborne, ma anche della desolante drammaturgia di Tennessee Williams, soprattutto nello splendido finale che toglie il respiro.