Jobs Act, lo spirito tradito

di ROBERTO MANIA

18 giugno 2015

 LO SPIRITO dello Statuto dei lavoratori non c’è più. Affossato dalla cancellazione di fatto dell’art. 18 e ora dalla possibilità dell’imprenditore di controllare a distanza, attraverso telefonini, pc e tablet, i dipendenti. Così come previsto dall’ultimo decreto del governo per l’attuazione del Jobs act. Lo Statuto nacque per riequilibrare i rapporti tra il datore di lavoro e il lavoratore perché i due soggetti non sono posti sullo stesso piano: più forte il primo, più debole il secondo.

È un rapporto asimmetrico. Con lo Statuto, approvato al termine del lungo autunno caldo operaio, la Costituzione repubblicana varcò i cancelli delle fabbriche contemperando il diritto all’iniziativa privata con il rispetto della dignità di chi lavora, riconoscendo e rafforzando il ruolo, anche istituzionale, delle organizzazioni sindacali il cui compito (per quanto spesso svolto pigramente al pari di un mero adempimento burocratico) è proprio quello di difendere il più debole in quel rapporto asimmetrico.

Dal 1970, anno di approvazione dello Statuto, il mondo è cambiato, solo un cieco potrebbe non vederlo oppure qualcuno in malafede. Pure nelle fabbriche tutto è cambiato. In meglio, sia chiaro. I modelli organizzativi si sono trasformati, gli operai alla catena di montaggio pensano il loro lavoro, non assomigliano neanche un po’ a Charlie Chaplin di “Tempi moderni”. La partecipazione dei lavoratori, la loro intelligenza, fa la qualità della produzione. Il resto lo fanno le tecnologie e il coraggio imprenditoriale, quando c’è. Anche questo era lo spirito dello Statuto, un pezzo della nostra Costituzione materiale. Poi è arrivato il Jobs act. Il cui spirito originario, però, era un altro. E va ricordato.

Quando il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, lanciò il suo Jobs act disse di ispirarsi a quello del 2011 di Barack Obama dove Jobs stava per Jumpstart our business startups , insomma un piano per rilanciare dal basso l’industria americana dopo la Grande crisi provocata dalla speculazione finanziaria e pagata duramente dal lavoro, con la svalutazione globale del lavoro. Anche Matteo Renzi pensò a qualcosa di simile guardando le carcasse industriali disseminate per il Paese, da Nord a Sud, leggendo le impressionanti statistiche nazionali sulla disoccupazione giovanile e su quella di lunga durata, immaginando un diverso modello di sviluppo sostenibile nel Paese che ha conosciuto la vergogna dell’Ilva di Taranto. Scrisse e parlò di nuovo welfare, di green economy , di politica industriale, di piani per l’edilizia, per la nostra cultura, per la formazione permanente. Non c’era l’abolizione dell’articolo 18, non c’era la possibilità di demansionare il lavoratore per quanto senza ridurgli la retribuzione, non c’era il potere del datore di lavoro di controllare a distanza (cosa non a caso vietata dallo Statuto) il lavoratore senza accordo sindacale o autorizzazione del ministero del Lavoro. La dignità di chi lavora non era in discussione e nemmeno intaccata da un progetto per la crescita. Il Jobs act tricolore è cambiato strada facendo, sulla spinta dei diktat della Banca centrale europea, rendendo più fragile la parte già più debole nel rapporto di lavoro. Certo in molti altri Paesi (dalla Francia alla Germania) sono possibili controlli (fatta salva la difesa della privacy) sugli strumenti di lavoro affidati ai dipendenti (anche se un telefonino non è esattamente identico a un cacciavite) ma è sempre previsto un accordo sindacale, un passaggio di garanzia da un soggetto terzo, non c’è l’imprenditore che decide da solo cosa fare. Questo è il punto e questa rischia di diventare l’anomalia italiana.

E così si rischia di non creare più buona occupazione bensì più risentimenti. Il Jobs act originario, infatti, sottendeva nuove relazioni tra capitale e lavoro, un salto culturale verso la partecipazione (i sindacati nei consigli di amministrazione, si disse), un passaggio per chiudere l’interminabile stagione del conflitto sociale novecentesco, un rinnovato patto generazionale con l’estensione di diritti e tutele a chi finora ha conosciuto solo precarietà. È rimasto poco di tutto questo. O almeno così sembra. Tassello dopo tassello l’opinione pubblica sta finendo per percepire un altro modello: libertà di licenziare, libertà di demansionare, libertà, ora, di sorvegliare i dipendenti. Una libertà che appare troppo a senso unico. Dov’è lo scambio, se di scambio si può parlare quando sono in gioco i diritti? Non è solo una questione di cattiva comunicazione. È una questione di sostanza e di efficacia delle politiche.

Lo spirito del vecchio Statuto dei lavoratori non c’è più, ma anche lo spirito del Jobs act si è decisamente scolorito.

Slc Cgil Puglia