Palmina è seduta e tiene una gamba piegata. Con la mano destra mette lo smalto ai piedi cantando “(Out here) On my own” di Nikka Costa. È una donna semplice Palmina, una di quelle che sono abituate a fare attenzione alla felicità, che sanno riconoscerla nelle piccole cose, magari proprio nell’odore pungente di uno smalto e nelle note di una canzone. Ci fa caso alla felicità perché è così che si fa con le cose rare. «Sometimes I wonder where I’ve been. Who I am, do I fit in».
Il brano che passa mentre è intenta in quel suo rituale laico comincia con una domanda che Palmina si fa spesso: le è capitato più di una volta di chiedersi chi fosse e dove fosse. Forse la risposta è nel titolo di quella melodia che lentamente sfuma proprio quando cominciano a far chiasso i suoi pensieri. A cinquanta anni si fanno bilanci e idealmente si prova a ricominciare. C’è da arrabbiarsi quando si sente dire che l’infanzia è il momento più facile della vita di una persona. Anzi, c’è da incazzarsi. Come si può spiegare a chi ha vissuto tra i peluche e lo zucchero filato di come ci si sente soli quando ti tradisce pure la tua famiglia? Quando ricordi tua sorella tornare a casa distrutta dopo la notte passata a fare la puttana per costrizione è difficile non sentirsi soli. ”Quelli” volevano lo stesso futuro per Palmina, perché prostituirsi «era un lavoro come un altro e che anzi, si guadagnava molto di più e senza fatica!». Una donna invece fa fatica ogni volta che viene fischiata per strada; ogni volta che non può vestirsi come vuole per il rischio di “provocare”; ogni volta che rinuncia a diventare mamma per non perdere il lavoro; ogni volta in cui viene uccisa perché non ama più o perché ama una religione diversa. E Palmina conosceva bene quella fatica e per questo ha deciso di scappare da casa. Oggi vive con Roberto che fa il carrozziere e ha due figli Maria e Vincenzo. Fanno tanti sacrifici ma sono innamorati e forti insieme.
Dino Cassone, giornalista e scrittore, ha pensato così la vita di Palmina Martinelli, usando l’espediente letterario del what if. L’autore ha scritto un monologo portato in scena lo scorso 19 maggio al Teatro Sociale di Fasano, nell’ambito della “Settimana dell’Infanzia” promossa dall’Amministrazione locale, e interpretato da un’indovinata Tonia Argento. Cassone non cita neppure una volta ciò che è accaduto davvero alla quattordicenne fasanese e, non ce ne vogliate, ma non lo faremo neanche noi. Basta navigare un po’ su internet o fare zapping tra quei programmi macabri che ricostruiscono omicidi per conoscere questa storia ancora oggi schivata dall’opinione pubblica. Certe vicende sono troppo ingombranti, perché costringono a guardarsi dentro e difficilmente si ha il coraggio di farlo. Dino Cassone ha restituito dignità a Palmina e l’ha fatto con tenerezza. Non ha puntato su quei climax che solleticano la morbosità di chi ascolta per il gusto di sentirsi migliore. Ma ha scritto concedendosi al suo personaggio, mischiandosi alla sua vita senza snaturarla. Ben riuscita quindi la scelta di un linguaggio semplice e di una scenografia essenziale: i riflettori erano, infatti, tutti per le parole di una sensibilità spiccata, nonostante l’essere prestate al dialetto. Quello di Dino Cassone è stato quindi un esercizio di scrittura complessa, perché non è facile far parlare una donna. Non lo è far parlare Palmina della vita che avrebbe sognato. Commovente il finale che ha raccontato l’attaccamento della protagonista verso la terra d’origine Fasano, una città bella anche quando sbaglia e non sa perdonarsi. Anche quando prova a dimenticare per non guardare alla sua fragilità e lo fa correndo verso il mare: «Io il mare di Savelletri non lo scambierei per niente al mondo! Ogni volta che lo guardo, anche d’inverno, penso: come sono stata fortunata a nascere in questi posti. Anche se ho passato un’infanzia non proprio bella, che non auguro a nessuno, oggi sono qua. Con mio marito e i miei figli. […]Ho vinto io. Non sono riusciti a bruciare la mia anima! Io sono ancora qui».