Nella sua autobiografia si legge: «Credo di avere fatto alcune cose buone e anche ottime, che però non hanno avuto un successo clamoroso e non possono averlo perché l’umanità è un mare dove i movimenti avvengono in superficie. Più si scende in profondità, più tutto sembra (ma non è) immobile». Lucido, come sempre, nel mostrare quello che era il suo pregio maggiore: l’umiltà.
Sebastiano Vassalli s’è n’è andato presto, divorato da un’impietosa malattia. Una delle penne più importanti del panorama letterario italiano, candidato al Nobel e vincitore del Premio Strega e Selezione Campiello per il sublime “La Chimera”, e vincitore del Premio Fondazione Campiello “alla carriera”, che non ha però fatto in tempo a ritirare. Ecco che la scorsa estate Rizzoli ha pubblicato, postumo, il suo ultimo romanzo dal titolo “Io, Partenope”. Ci stava ancora lavorando su Vassalli, e per questo è probabilmente incompiuto e con qualche imperfezione cui, siamo certi, avrebbe saputo rimediare.
Lo stesso autore definisce questa storia «l’ultima tappa di un viaggio che mi ha portato a vedere il mio Paese dalla parte delle radici. Ho raccontato l’Italia». Giustissimo. E in quest’ultima, vibrante narrazione, Vassalli ci porta nel periodo forse più oscuro della Chiesa, quella «che tutti abbiamo perso». E lo fa, a sorpresa (ma il titolo già ne svela le intenzioni), utilizzando la prima persona e (qui il tocco di genio), servendosi di una licenza letteraria inserisce se stesso come destinatario della narrazione, e sceglie d’incontrarla in una chiesa di Roma in quello che «non è il suo tempo e non è ancora il mio: è il tempo della letteratura, dove tutto o quasi tutto è possibile».
Napoli, primi del Seicento. A parlare è Giulia Di Marco, che diventerà suora col nome di Suor Partenope. La donna, in seguito all’esagerato numero di seguaci che condivideranno con lei preghiere e “fili diretti” (attraverso frequenti estasi) con Dio, finirà per suscitare interesse ancor che gelosia da parte della Chiesa. Puntuale giungerà il Sant’Uffizio, che la processerà e torturerà fino a confinarla in un monastero, salvo poi essere liberata “per acclamazione” del popolo (e addirittura del viceré di Spagna), che la vuole libera e soprattutto ancora in grado di creare l’ideale ponte tra la Terra e il Paradiso. Processata nuovamente a Roma, sarà condannata definitivamente per eresia, dopo che le è estorta, in pubblico, la abiura. Finirà per essere accolta presso l’abitazione dell’arcivescovo Carafa a Napoli; qui incontrerà Gian Lorenzo Bernini. Tra il maestro e la donna, entrambi ormai in là con gli anni, s’instaura una bella amicizia e nel tessuto del racconto s’intrecceranno inevitabilmente le trame delle due esistenze. Anzi, sarà proprio Giulia nelle fattezze da giovane a ispirare il maestro scultore per la famosissima quanto chiacchierata “Estasi di Santa Teresa”, scolpita in un atteggiamento “fin troppo di piacere”.
Una figura di donna sorprendente, quella di Suor Partenope, una “santa” che ha conosciuto anche l’amore e il sesso. Certamente sui generis, troppo moderna per la sua epoca, che è la stessa in cui Vassalli aveva già ambientato “La Chimera”, in netto contrasto con il contro riformismo della Chiesa. Il romanzo si legge come se si bevesse un bel bicchiere di latte di mandorla: allieta il gusto della lettura lasciando il retrogusto della sapiente narrazione, ritmica e coinvolgente. Sempre raffinata: «Napoli – dice la protagonista durante una chiacchierata con Bernini – è una città femmina e perciò gli uomini, più che altrove, sono ossessionati dalla virilità… e Roma invece non è né maschio, né femmina: è la città dei papi, centro mondiale di una religione che s’illude di avere un’immagine e una forma, ma non ha né l’una, né l’altra». Semplicemente fantastico.
Peccato, come avevamo già anticipato, per alcuni errori di redazione come ad esempio gli eccessivi due punti, che ne inficiano la scorrevolezza. Questo, però, solo per spaccare il capello a un libro, che invece non dovrebbe mancare in una libreria che si rispetti.