E pensare che dopo il suo primo provino, Samuel Goldwin, padre-padrone degli omonimi Studio, imprecò contro i suoi assistenti: «Dove avete trovato quell’orribile creatura?». Bette Davis, il brutto anatroccolo in questione, era invece destinata a diventare la dea della settima arte, e, poiché tale, immortale. Due Oscar su dieci candidature come Miglior Attrice e una Palma d’Oro a Cannes.
Una tipa intelligente e tosta Ruth Elizabeth Davis, dalle tante definizioni (“La diva agra”, “La bisbetica indomata”, “Il quarto fratello Warner”) e dai tanti ruoli, strappati a forza di battaglie per conquistare il suo diritto ad avere copioni eccelsi, registi e partner all’altezza della situazione. Non bellissima, Bette, ma sicuramente affascinante: occhi sporgenti ma magnetici (Kim Carnes gli dedicò pure una canzone must degli anni ’80), incedere languido e regale, come poche sapeva far prendere alla sua bocca la piega più arcigna possibile, quando non occupata dall’inseparabile sigaretta.
Nella sua lunghissima carriera fatta di oltre novanta pellicole ha incarnato ogni tipo di donna: perfida, innamorata e senza difese, masochista, glaciale e folle. Sacrificando moltissimi e indimenticabili capolavori che l’hanno vista protagonista, siamo costretti, per questioni di spazio e per non abusare della pazienza di chi legge, a sceglierne tre. Tre pellicole diverse, che vi supplichiamo di vedere o di rivedere, nelle quali l’impareggiabile Bette, ha incarnato tre tipi di perfidia: quella professionale, quella dettata dalla gelosia e, infine, quella senile.
In “Eva contro Eva” (che detiene il record di candidature mai ricevute, quattordici, eguagliato nel 1998 da “Titanic”) del 1950, diretta da Joseph L. Mankiewcz la Davis interpreta Margò Channing (sarebbe lo stesso affermare anche il contrario). Un ruolo che le capitò dopo una serie infinita di rinunce e che lei, in crisi artistica, non si lasciò sfuggire. Un capolavoro di sceneggiatura e di recitazione, centotrentotto minuti di dialoghi intinti nel veleno sul mondo del teatro, dagli splendori sul palco alle miserie dietro le quinte. Un duello tutto al femminile, dove a vincere, manco a dirlo, è la sfrontatezza e l’arroganza di Bette-Margò (nomination agli Oscar), che ci blocca il cuore nella sequenza dove chiosa, mentre sale le scale del suo lussuoso appartamento: «Prendete il salvagente, stasera c’è aria di burrasca».
In “Che fine ha fatto Baby Jane?” di Robert Aldrich del 1962, il duello divenne reale, poiché a recitare insieme alla Davis c’era un altro mostro sacro di Hollywood, Joan Crawford. Entrambe nel pieno declino artistico, considerate ormai fallite e poco commerciali, acerrime rivali, diedero però vita sullo schermo a un capolavoro che divenne anche un successo strepitoso al botteghino, rilanciando la carriera di entrambe. Le due dive interpretano due sorelle, Jane (Davis) bambina prodigio famosissima e Blanche (Crawford), anche lei attrice, costretta su una sedia a rotelle da un misterioso incidente. La rivalità nata in gioventù della seconda verso la prima, a questo punto si ribalta e diventa ferocia, un vero gioco al massacro. Bette Davis (nomination agli Oscar) è perfetta nei panni deliranti di Jane, ritornata bambina, terrificante già dalla maschera dipinta sul volto: bianca e folle, mentre canta “I’ve written a letter to daddy”, una canzoncina che dà letteralmente i brividi.
Al termine della sua carriera, Bette Davis ci ha regalato il suo “canto del cigno”, un canto, ancora una volta, sublime. Il film è “Le balene d’agosto” diretto nel 1987 da Lindsay Anderson, e vanta già un record, i trecentodiciassette anni dei quattro protagonisti: oltre all’ottantaduenne Davis, Lillian Gish (musa del cinema muto di Griffith), Vincent Price e Ann Sothern. Un film di vecchie glorie sulla vecchiaia. Ancora una volta un duello (due modi diversi di affrontare la vecchiaia) e, ancora una volta tra due sorelle: la solare Sarah (Gish), vedova di guerra ancora nel pieno delle sue forze, e la scontrosa Libby (Davis), cieca e incattivita dalla vita. Vivono, in simbiosi, nella deliziosa casetta della loro infanzia, sugli scogli dell’isola di Maine, tra la natura dai colori bellissimi e i ricordi che al contrario delle fotografie «che sbiadiscono, durano per sempre». Un rapporto di odio e amore tra le due sorelle, dove a dominare, è il volto impassibile di Libby-Bette, maschera di muscoli inermi e anaffettivi, che in una struggente sequenza, perfidamente sussurra a sua sorella, intenta a pettinarle la fluente chioma argentata: «Io ho dei bei capelli, ho sempre avuto dei bei capelli. Io mi sono presa cura di te per quindici anni. Quindici anni tu e quindici anni io. Siamo pari».