«È bello, l’ho scritto io, accattattivill!», urla il giovane Francesco nel simpatico cortometraggio da lui ideato e interpretato per raccontare quanto è duro vendere i libri o piuttosto quanto è dura trovare qualcuno che li legga. Confessiamo che mossi da tanta tenerezza abbiamo letto il suo romanzo con occhi diversi, quasi paterni.
Parliamo di “Il cielo resta sempre quello” (ed. Frassinelli), opera numero due del calabrese Francesco Leto, che vanta già al suo attivo la candidatura allo Strega 2013 con il suo primo “Suicide Tuesday”. Il giovane autore è anche il promotore del progetto “Sfama uno scrittore”, una sorta di tour promozionale vendendo porta a porta il suo ultimo lavoro, con tutte le difficoltà che ne conseguono.
Una storia ambientata a Bagnara in Calabria, che si dipana dall’immediato dopoguerra fino al 1986. Un romanzo corale dove non esiste né un vero e proprio protagonista né una chiave di lettura precisa. Tante le voci che lo compongono: Maria, scomparsa una mattina di settembre del 1986, appunto, e mai più ritrovata; Carmine l’uomo più bello del paese che finirà per sposare; Domenico, il frutto del loro amore, soprannominato u cardiddu (ecco spiegato il cardellino che si staglia imperioso in copertina), per via della sua fragile costituzione; Rosa, inseparabile amica di Maria e i suoi due figli, Sisina, timida ma granitica, e Antonio; Teresa Sasso che «si diceva che era per via del diabete che fosse così acrimoniosa», potente madre di Carmine; e poi, ancora, lo sfortunato Giovannino e la Strega, «occhi gialli come il topazio e sempre vestita di nero, chiamata così perché quando aveva quattordici anni sognò che il suo fidanzato e promesso, sarebbe morto annegato in mare». Non si sarebbe mai più sposata.
Su tutto si staglia inconfondibile la voce dolente e “di pancia” di Mimì, Mia Martini, figlia di quel paesello che attraversa tutta la storia. La vediamo prima piccola mentre corre al mare, scalza, come tutti i bambini del posto, assieme alle sue sorelle, Olivia e Loredana; poi adolescente già con la passione per la musica e il canto. Passione contrastata dal padre Domenico che non voleva che sua figlia «crescesse come una mignotta». Infine cantante affermata prima all’apice del successo e poi seppellita dalle malelingue nella sabbia della sua stessa terra, a tirare le reti con i pescatori.
Un legame ombelicale quello tra i personaggi e le canzoni di Mimì (e no, il titolo non si riferisce al capolavoro scritto per lei da Ivano Fossati, ma come lo stesso Leto ha specificato a una citazione di Ferlin), che diventano colonna sonora delle varie storie personali. Storie che s’intrecciano in un susseguirsi di drammi che tanto ricordano i Malavoglia verghiani. Le parole delle canzoni di Mia Martini diventano così la tessitura della trama, diventano letteratura stessa, perché come l’autore ha dichiarato da qualche parte «La letteratura non è didattica e non è roba da èlite. Secondo me, infatti, è pop». Appartenente alla memoria popolare, come Mimì, appunto.