(di Carmela Moretti)
Don Giosy Cento ha lo sguardo tenero di un nonno e un animo da rockettaro. Quanto basta per far breccia nei cuori dei giovani. Appena sacerdote, ha capito di voler parlare di Dio attraverso una chitarra e le sue canzoni. Da allora, ha scritto circa mille brani di musica leggera cristiana e con un gruppo di giovani musicisti, i “Parsifal”, ha tenuto più di tremila concerti in Italia e all’estero. Tra i momenti più emozionanti della sua vita, ricorda l’incontro con papa Woytila.
Don Giosy, lei è instancabile come un ragazzino. Ma, in realtà, quanti anni ha?
Sono un ragazzo di sessantotto anni.
Si sente più sacerdote o più cantautore?
Io sono un prete che canta. Il cantare è semplicemente il prolungamento del mio essere prete e dell’Eucarestia.
Un suo testo, molto amato tra i giovani, s’intitola “Ho fatto un sogno”. Qual è il sogno più bello che è riuscito a realizzare in questi anni?
Quello di essere arrivato a quest’età e di essere ancora prete, dopo quarantacinque anni di sacerdozio. Sai, la vita è un attraversamento di infinite esperienze, nel corso delle quali ci si può salvare o perdere. Il mondo di oggi è il mondo della complessità, della liquidità, dell’inedito. E perdersi è molto facile. Quindi, la mia vita oggi è un ringraziamento a Dio, perché mi dà ancora la possibilità di essere qui e di stare in mezzo ai ragazzi e agli “scarti della società”, come un padre o come un nonno.
Ha un santo protettore in Paradiso?
Si. Non è un cantante, ma è stato un grande cantautore. Ha cantato nella Chiesa per 27 anni, riuscendo a parlare ai giovani come nessuno aveva mai fatto prima. È san Giovanni Paolo II. Un giorno, in uno stadio, ha chiesto chi fosse l’autore delle canzoni che i ragazzi ballavano e ha voluto conoscermi. Alcuni mesi primi di morire, mi ha mandato a chiamare per chiedermi di continuare a dare ritmo nella Chiesa.
In Europa, forse siamo il Paese che investe meno nei giovani. C’è qualcosa che vorrebbe dire alla nostra classe dirigente?
Che sono arrabbiato, ma che nel mio piccolo non mi arrendo. Perché questi giovani hanno diritto a vivere una vita piena. Quindi, faccio tutte le liti che posso fare, per strada, con i genitori, con i datori di lavoro, con i politici. Diciamo che sono un “litigatore” a favore dei giovani.