Ci sono film che subito dopo la visione sono giudicati dei veri a propri capolavori: per la potente e incisiva sceneggiatura o per la recitazione straordinaria. Oppure per aspetti più tecnici, come la fotografia, le scenografie e i costumi. Per lo stesso motivo, ci sono film che magari per una storia inesistente o per la pessima interpretazione sono delle vere e proprie purghe, noiosi o insulsi tanto da “volersi alzare già dai titoli iniziali”. Ci sono poi film che invece dopo la prima visione non suscitano alcuna di queste emozioni, ma restano dentro di noi, a sedimentare.
È questo il caso dell’ultima pellicola firmata dallo svedese Ruben Östlund (già autore dello spiazzante “Play”), dal titolo “Forza maggiore”, vincitore della sezione “Un Certain Regard” dello scorso Festival di Cannes. La storia è di una coppia, Tomas ed Ebba (bravi ed espressivi Johannes Kuhnke e Lisa Loven Kongsli) che assieme ai loro due bambini va a fare la classica settimana bianca sulle alpi francesi. La quotidianità delle scene iniziali lascia presto spazio all’elemento di disturbo: il secondo giorno di vacanza, mentre la famigliola felice è seduta a uno dei tavoli sulla terrazza del ristorante, una “slavina controllata” (provocata dai gestori degli impianti per evitare le vere valanghe), sono travolti in parte dalla stessa. E qui accade l’imprevedibile: Tomas in preda al panico fugge alla chetichella lasciando moglie e figli impalati dal terrore. L’allarme rientra, ma qualcosa, inevitabilmente, ha sconvolto l’armonia della bella famigliola. La crisi di coppia è dietro l’angolo: Tomas è davvero un capo famiglia? Uomo affidabile o carogna egoista? A rendere più insopportabile la cocente delusione di Ebba è la continua ostinazione di suo marito a negare l’evidenza celandosi dietro un buonumore che lo fa sembrare piuttosto un idiota.
E di scene e di frasi “nonsense” («Forse volevi scappare per diseppellirli!», dice l’amico del protagonista per giustificare la sua reazione di fuga), o almeno in apparenza, è disseminata tutta la parte centrale del film: nessun sussulto emotivo, passionale o doloroso che sia, quasi come se la vera valanga fosse precipitata addosso ai sentimenti. «Prova ad abbracciarmi», sussurrata da Tomas, racchiude tutto. E una grossa mano la dà anche la fulgida fotografia di Fredrik Wenzel e i pochissimi movimenti della macchina, immobile a fissare paesaggi d’innaturale bellezza con le “Quattro stagioni” di Vivaldi usato come sottofondo.
Un film sul bisogno di convivere con le incertezze e sulla fragilità delle certezze su cui si tende a costruire un rapporto d’amore. Difficile dire se la visione del regista sia ottimistica o pessimistica, tanto è impenetrabile il suo pensiero, quasi come i ghiacciai eterni che fanno da sfondo alla sua storia. Una sorta di “Scene da un matrimonio” di Bergman, in versione “nevosa”: simile visione della coppia apparentemente felice minata invece da crepe profonde. Stesso egoismo maschile e stessa “intromissione” da parte di un’altra coppia che costringe “a mettersi davanti allo specchio” e far venir fuori dubbi e incertezze.
Perplessità e dubbi suscitano anche il finale del film: il gruppo dei turisti, compresa la nostra famiglia, in preda al panico per la maldestra guida dell’autista dell’autobus su cui viaggiano sui tornanti di montagna, scendono tutti in strada in seguito ad una reazione isterica collettiva (che quindi si risolverà in un momento di solidarietà umana? E chi può dirlo?). La camera li segue mentre in gruppo e a passo spedito scendono verso valle, in silenzio. Senza dirsi una parola. Dissolvenza. Fine.