Il rischio più grosso della “serialità” è la stanchezza: creativa da parte di chi scrive e per noia da parte di chi legge. Si possono contare sulle dita, infatti, gli esempi di romanzi in serie che riescono a mantenere il livello alto di entrambi i casi: il commissario Maigret di George Simenon, l’Hercule Poirot e la Miss Jane Marple di Agata Christie, o ancora, Sherlock Holmes di Sir Conan Doyle per giungere fino all’attualissimo Salvo Montalbano fuoriuscito dalla penna del ragazzone novantenne Camilleri.
Maurizio De Giovanni sembrava a ricalcare le stesse nobili orme degli illustri colleghi diventati ormai classici e del contemporaneo collega siciliano, destinato a diventarlo. L’eccellente autore napoletano ha pubblicato qualche mese fa “Anime di vetro. Falene per il commissario Ricciardi”, ottavo episodio che vede protagonista il bello e tenebroso commissario dagli occhi verdi. Confessiamo subito una cosa: chi scrive ha letto quattro sui sette che l’hanno preceduto e si assume ogni responsabilità di quello che propone, e cioè che De Giovanni abbia bisogno di una pausa riflessiva. Che non potrà non far bene alla sua vena creativa, quantomeno a quella “gialla” poiché con questo suo ultimo lavoro si è sicuramente allontanato, relegando la trama “poliziesca” a un ruolo troppo marginale. Deludente, alla fine.
Capiamoci, lo stile, che utilizza il muscolo addominale e cardiaco, è sempre eccellente: ad averne come lui! Esempio uno: «L’amore, sapete, è amore. Non ha bisogno di trovare una realizzazione, una concretezza per rimanere se stesso. È amore e basta». Esempio due: «Addormentatevi tranquilli, allora. E sognate pure. Perché non sognerete nulla di quello che vi aspettate, mentre le vostre mani si allungheranno nel sonno a cercare una coperta che vi ripari dal freddo improvviso che entrerà, a tradimento, dallo spiraglio che avete lasciato, esponendo così la vostra anima. La vostra anima di vetro». Ci siamo capiti, no?
Lo schema narrativo è ancora lo stesso (e qui il primo sbadiglio): introduzione musicale, questa volta la canzone è “Palomma ‘e notte” di Salvatore di Giacomo (spiegata a un giovane musicista, e dunque al lettore, da un vecchio insegnante di chitarra), poi la “voce” dell’assassino, quindi il delitto e le indagini. E l’inevitabile soluzione finale. In questo romanzo il solo “sussulto” della trama è che l’assassino ha già confessato. Troppo facile, se non fosse che sua moglie chiede al bel Ricciardi di riaprire il caso chiuso troppo in fretta dai colleghi che l’hanno seguito la prima volta, perché crede fermamente nell’innocenza del marito. Parte così un’indagine senza autorizzazione, con l’aiuto del solito fedele brigadiere Maione e del travestito Bambinella (i cui siparietti continuano a strappare sinceri sorrisi). La trama del mistero finisce qui, nella sua consistenza e nella sua fragile “anima di vetro”, parafrasando lo stesso titolo, perché serve solo da pretesto a De Giovanni per quello che voleva davvero narrare: per amore ci si può sacrificare e vivere per un amore impossibile porta inevitabilmente a bruciarsi, come le falene del sottotitolo che si avvicinano alla fiamma. Molti amori, molte falene: quello di Ricciardi per Enrica, quello di Livia per Ricciardi, quello di Bianca per suo marito. Amori agognati, impossibili e non ricambiati. Insomma un romanzo più introspettivo, che nulla a che vedere con il giallo vero e con i casi del commissario Ricciardi. Che immaginiamo bussare in piena notte a casa dell’autore, disperato, per fargli un’unica domanda: «A cosa serve tutto questo mare?». Leggetevi il romanzo per capire.