(di Carmela Moretti)
Ameluk del regista bitontino Mimmo Mancini è molto più di quello che si è potuto percepire sul set, per frammenti. È un film divertente e al tempo stesso impegnato, che mette in scena il confronto/scontro tra le diverse culture. Tema attualissimo e su cui è giusto che si interroghino politici, studiosi e -perché no- artisti, alla ricerca della migliore strategia per una reciproca conoscenza.
Mussulmani, ebrei e cristiani devono convivere in un paesino dell’entroterra barese, in cui da sempre regna sovrana una grettezza mentale che ostacola qualsiasi tentativo di apertura al “diverso”. Un tentativo che in Ameluk -ma in ciò il regista non si discosta dalla realtà- viene portato avanti dalle istituzioni clericali in nome di un Dio che deve unire e non dividere. Emerge, così, quella confusione che caratterizza le nostre vite e che è alla base della guerra che ogni giorno intentiamo nei confronti di tutto ciò che non è “io”, tant’è che nel film i mussulmani vengono chiamati mormoni, gli ebrei tacciati di essere strozzini e così via. A complicare la storia, poi, ci pensa la politica, con una campagna elettorale nel periodo pasquale che vede contrapporsi da un lato una sinistra certamente più aperta e riformista, ma come sempre spaccata da inguaribili lotte intestine; dall’altro lato, un uomo antidemocratico e zoticone, incarnazione della peggiore demagogia della politica italiana, quella che sfrutta il pregiudizio e l’inganno per ottenere consenso. Alla fine, però, la Pasqua è veramente motivo di Redenzione per tutti i personaggi della storia. E anche il pubblico esce dalla sala in qualche modo “rinnovato”.
Ma, al di là della storia accattivante, Ameluk merita consensi almeno per altri tre motivi. Ha un montaggio veloce e geniale, che riesce a tener desta in ogni istante l’attenzione degli spettatori. È ben curata la luce, a tratti vivace e a tratti dolcemente poetica. E poi gli attori sono tutti perfettamente addentrati nel loro ruolo.
Mimmo Mancini si rivela ancora una volta un attore brillante, al cinema come a teatro. Su Roberto Nobile, Rosanna Banfi e Carlo Cinieri non è il caso di sprecar parole (a parlar di loro ci pensa il successo che hanno ottenuto). Dante Marmone è il cuore del film e dà prova di un indiscusso talento -come anche sua moglie Tiziana Schiavarelli. Paolo Sasanelli è semplicemente perfetto in tutto, non sbaglia uno sguardo né un’espressione. Ancora, lodevole è l’interpretazione di Luigi Angiuli, Teodosio Barresi, Pascal Zullino e Michele De Virgilio, che offrono al film un valore aggiunto. E poi ci sono i più giovani Mehdi Madloo, Francesca Giaccari, Claudia Lerro e Andrea Leonetti, con un talento inversamente proporzionale alla loro età.
Infine, sullo sfondo un’altra protagonista. Una Mariotto che nessuno aveva mai visto e che solo l’occhio dell’ingegno coadiuvato dall’occhio di un obiettivo ha saputo restituire in tutte le sue sfumature. La poesia dei volti della gente comune, le musiche popolari del Venerdì Santo e la bellezza della campagna bitontina arricchiscono il film di ulteriori significati.
C’è solo un problema oggettivo con cui questo lavoro si sta scontrando da mesi, come accade a tutte le produzioni indipendenti nel nostro “odiatamato” Paese. Vale a dire, la difficoltà a inserirsi nelle complicate logiche della distribuzione, che spesso costringono produttori e registi a bussare a porte che non si aprono mai o a imbattersi nella fatidica frase “Vi faremo sapere”, ritardando l’uscita del film nelle sale italiane.