Tempo fa mentre ero intento, confesso con un pizzico di scetticismo dovuto al mio “saltellante agnosticismo” nella lettura di un libro intitolato “Folli d’amore – Maria Manca, Rosa Maria Serio, Palma Matarrelli. Donne mistiche tra XVI e XIX secolo in Puglia” (Schena Editore) scritto a sei mani da Olga Sarcinella, Antonietta Latorre e Maria Antonietta Epifani. Attraverso la storia di tre mistiche pugliesi e dunque del “monachesimo femminile”, il volume offre una dettagliata analisi del contesto storico, dei movimenti religiosi e soprattutto la psicologia e le vicende umane. Parte, quest’ultima, che mi ha letteralmente conquistato. Donne talmente “innamorate” di Dio da apparire “invasate” e “diaboliche”. Difficilmente ritenute delle vere e proprie sante, poiché donne.
E leggendo questo corposo tomo, mi è tornato alla mente un vecchio film del 1985 diretto da Norman Jewison, dal titolo “Agnese di Dio” e che ben si sposava con quelle parole scritte. Un film affascinante e con un cast mirabile che vale la pena ripescare da qualche polverosa cineteca, anziché spendere i soldi per andare al cinema e “farsi fregare” dalla pellicola del momento, quel “Io che amo solo te” dagli incassi strepitosi e dalle strepitose pecche cinematografiche. Meglio devolvere la somma all’istituto delle “Redentrici umiliate”, citate da quel “mostro” di Almodovar in uno dei suoi primi straordinari film. Sempre che esista.
Ebbene, procediamo con la trama. La silenziosa e gelida vita del convento delle Piccole Suore di Santa Maria Maddalena di Montreal è sconvolta, nel bel mezzo di una notte, da atroci urla: la giovane suor Agnese (Meg Tilly) è ritrovata nella sua cella in un mare di sangue. La donna è trasportata in ospedale mentre la Madre Superiora (Anne Bancroft) rovistando nella sua cella ritrova in un cestino per la carta il corpicino di un neonato, morto, strangolato dal suo stesso cordone ombelicale. Suor Agnese riesce a riprendersi ma si rifiuta di ammettere il parto ancor prima del presunto omicidio; per questo le è affiancata dal Tribunale una psichiatra (Jane Fonda) che dovrà levare le classiche castagne dal fuoco (per buona pace dei piani alti della Chiesa), e decidere se la giovane sorella è totalmente pazza oppure totalmente colpevole. E qui comincia il film, che si dipana tra una fitta ragnatela di colpi di scena, terreni e mistici, fino alla soluzione finale. O forse no.
Il dilemma atavico tra fede e religione. Le donne che perdono la loro celebrata “santità” di “madonne” per dare sfogo alla loro essenza di “donne”. La “follia d’amore” (di qui l’aggancio al libro di cui sopra), verso Dio e l’ultraterreno, attraverso fustigazioni e sacrifici “terreni” che portano a “rivelare” anche fisicamente (con brutali e brutalizzanti stigmate), i segni di questo “legame”. Spesso scambiato (forse opportunamente) per “malattia” o “pazzia” rafforzando e radicando la concezione di una religione troppo maschilista.
Tecnicamente è un film ineccepibile: la fotografia di Sven Nykvist evoca alcune pitture fiamminghe, la scenografia (almeno negli angoli rubati del convento) di Ken Adam è davvero affascinante e la sceneggiatura di John Pielmeyer, che l’ha tratta dalla sua pièce teatrale, è un meccanismo a orologeria. Fulminanti le battute tra suor Ruth (la superiora) e Martha (la psichiatra), tra le cose migliori del film: «Santi si nasce, non si diventa. E la bontà ha poco a che fare con la santità», oppure «Non c’è posto per i miracoli nel mondo di oggi, ma i miracoli mi mancano», che non possono lasciare indifferenti. Come non sottolineare il tris delle protagoniste, tutte da Oscar? Anne Bancroft immensa superiora “con le palle”, che supera di una spanna le altre due, Meg Tilly e Jane Fonda, comunque gigantesche nel tratteggiare la prima una donna/suora delicata e pericolosamente innamorata di Dio, la seconda una rigida e tormentata psicologa, il cui ateismo vacilla come quello degli spettatori più incalliti, e il sottoscritto tra questi.