Pietro Caramia e Antonio Trisolini sono gli autori e i registi di un nuovo e originale allestimento teatrale tratto liberamente dal mastodontico “Delitto e castigo” di Fëdor Dostoevskij. Operazione non facile quella di ridurre in circa cento minuti le infinite pagine dell’opera, e soprattutto di scegliere quali personaggi, tra gli innumerevoli splendidamente pennellati dallo scrittore russo, mettere in scena.
Salva comunque, come scrisse lo stesso romanziere, «l’allusione all’idea che la pena giuridica comminata per il delitto spaventa il criminale molto meno di quanto pensino i legislatori, in parte perché anche lui stesso, moralmente, la richiede». Come salva è la narrazione della vicenda principale: Rodion Romanovic Raskol’nikov (Pietro Caramia) dopo aver abbandonato per pigrizia gli studi di legge, in seguito a problemi, prima fisici poi economici, ma soprattutto per verificare una sua personale teoria sulla divisione degli uomini tra non speciali e speciali (in cui lui s’identifica), compie il gesto estremo di ammazzare Alëna Ivanovna la vecchia proprietaria della stanza in cui vive, e spietata usuraia. Imprevedibilmente Raskol’nikov è costretto ad ammazzare anche la sorella minore della donna, Alëna, testimone suo malgrado dell’omicidio. Da quel momento in poi i sensi di colpa e i morsi della coscienza divorano irreversibilmente l’uomo. Tra angosce, timori di essere scoperto e pentimenti, si delinea la consapevolezza che per espiare la propria colpa è necessario attraversare l’inferno del dolore e della sofferenza.
A fare da contorno a questo inferno ci sono l’integerrima e risoluta sorella Dunja (Monica Veneziani); Svidrigajlov (Vito Giannulo), un ricco villano che prima molesta Dunja poi la pretende in sposa, molto più simile a Raskol’nikov di quanto egli non immagini; il vero pretendente di Dunja, l’avvocato Lužin (Flavio Giannulo), che sposerebbe la donna più per aiutarla che per amore e che rappresenta in fondo il reale alter ego negativo di Raskol’nikov, perverso e meschino. Sono due, però, le figure fondamentali per il tortuoso cammino verso la redenzione del protagonista: il giudice istruttore Porfirij (Antonio Trisolini), che, pur non avendo prove concrete, è convinto da subito di trovarsi di fronte il colpevole del duplice omicidio, portandolo alla spontanea confessione per una riduzione di pena attraverso un’articolata padronanza oratoria (frutto anche di un paio di efficaci monologhi creati ex novo), capace di penetrare nei meandri più reconditi della mente di Raskol’nikov; e soprattutto Sonjia (Marilena Rotolo), una povera ragazza costretta a prostituirsi per mantenere la famiglia, di cui il protagonista è innamorato, la quale, grazie alla profonda fede e indefessa fiducia per la redenzione cristiana, saprà indicare la via giusta al suo amato Raskol’nikov per l’espiazione del castigo e la salvezza.
Notevole la messa in scena curata da Pasquale Cariola: un groviglio di corde a racchiudere uno spazio totalmente nero che potrebbe essere la stessa mente del protagonista Raskol’nikov. Corde che legano i destini dei vari personaggi e aggrovigliano la coscienza rappresentata in scena da cinque giovani danzatrici (del centro di studi danza di Flavia Simone “Il Balletto”), annodando e sciogliendo di volta in volta i sentimenti. Affascinanti e molto efficaci le musiche create da Piero Anania. Buona, infine, la recitazione corale dei sei attori: incazzata più che cazzuta (per scelta registica) Monica Veneziani, misurato e cerebrale Antonio Trisolini, credibili Svidrigajlov e Lužin (Vito e Flavio Giannulo). Un plauso a parte va a Marilena Rotolo, perfetta nel ruolo della pura e tormentata Sonjia, e a Pietro Caramia, abile nell’indossare i pesanti panni di Raskol’nikov in tutta la sua doppiezza. Una prova d’attore la sua, impegnativa anche fisicamente, che ha raggiunto il suo culmine nell’intensa scena della confessione. Uno spettacolo emozionante che consigliamo di non perdere non appena sarà nuovamente portato in scena, ci auspichiamo il prima possibile.