È morto David Bowie. Evviva David Bowie. In questi giorni in cui il mondo distratto degli internauti ha riscoperto una delle icone della musica mondiale, con omaggi e condivisioni a manetta delle sue canzoni più celebri, pochi hanno ricordato che il Duca Bianco era anche un attore. Evanescente e sublime, proprio come la sua musica.
L’artista inglese ha saputo scegliere anche nel campo della settima arte ruoli non convenzionali ma sempre lucidamente coerenti con la sua personalità, eclettica e sopra le righe. Venti titoli tra ruoli principali e camei (ne citiamo solo alcuni: Andy Warrol di “Basquiat” di Julian Schnabel; Ponzio Pilato in “L’ultima Tentazione di Cristo” di Scorsese”; Nikola Tesla in “The Prestige” di Christopher Nolan; Philipps Jeffries in “Fuoco cammina con me” di David Lynch. A buon intenditor…). Sono almeno tre, però, i gioielli che vogliamo segnalare.
A cominciare dal primo ruolo di Bowie in “L’uomo che cadde sulla terra”, il capolavoro fantascientifico di Nicola Roeg, dove interpreta il protagonista, un alieno che arriva sulla Terra per trovare il modo migliore di salvare dalla siccità il suo pianeta. Diventato Thomas Jerome Newton a capo di un impero economico, comincia a costruire la sua arca-astronave per trasportare più acqua possibile, fino a quando, scoperto, sarà fatto prigioniero e torturato selvaggiamente. Finirà col diventare proprio come un umano: in preda alle passioni più meschine, alcolizzato e solo a tormentarsi per la sua gente che sta morendo. Bowie offre un’interpretazione magnifica e dolente dell’alienazione di un alieno, cucendosi addosso un ruolo che lo contraddistinguerà per sempre in tutta la sua lunga carriera.
Nel 1983 Tony Scott lo vorrà nelle vesti di un vampiro, protagonista del conturbante triangolo amoroso di “Miriam si sveglia a mezzanotte”. A completare i lati della carnale figura geometrica niente di meno che due icone della celluloide mondiale: Catherine Deneuve nel ruolo di sua moglie e Susan Sarandon in quelli della dottoressa. La storia è di due vampiri che si amano da secoli e che vivono a New York. Lei sempre bellissima, lui che prima comincia a soffrire di una strana forma d’insonnia, poi comincia a invecchiare inesorabilmente, cosa che lo porterà a morte sicura. La sola possibilità di salvezza si materializzerà quando, per caso, i due incontreranno Sarah, una dottoressa alla ricerca della cura contro l’invecchiamento. A complicare le cose è che Miriam è anche attratta dalla donna (la pellicola all’epoca fece scandalo per le scene saffiche tra le due protagoniste). Memorabile Bowie nei panni angosciati di qualcuno che dovrebbe essere immortale e che scopre di non esserlo, cornuto e mazziato dalla stessa donna che pure glielo aveva promesso. L’eternità che diventa un incubo, una dannazione anziché un dono.
Terzo capolavoro che vede il Duca protagonista è lo straordinario “Furyo” di Nagisa Oshima, il cui titolo originale “Buon Natale Mr. Lawrence” rende meglio la densità e le emozioni che scorrono lungo tutta la pellicola. Isola di Giava durante la seconda guerra mondiale. Qui è ubicato un campo giapponese di prigionia, guidato dal giovane, spietato e stronzo, capitano Yonoi (Ryuichi Sakamoto, qui alla sua prima esperienza attoriale), coadiuvato dal sergente Hara (l’immenso Takeshi Kitano). A fare da tramite tra i soldati e i prigionieri c’è il tenente colonello Lawrence (Tom Conti), che gode della stima del temutissimo Yonoi. Le cose si complicano all’arrivo di un prigioniero australiano, il maggiore Jack Celliers (Bowie), contrario alle gerarchie e ai soprusi, che porterà scompiglio negli equilibri della gestione del campo e nella mente dello stesso capitano, attratto irresistibilmente dal maggiore (e la carica sensuale di Bowie qui buca davvero lo schermo). Un film memorabile non solo per la magnifica colonna sonora di Sakamoto (“Forbidden Colours” è una perla rara), ma soprattutto per come pennella temi forti come la guerra, l’omosessualità, la coesistenza di due culture troppo differenti tra loro, l’occidentale e l’orientale, e l’estremo senso dell’onore di quest’ultima, per la quale è «Più onorevole compiere hara-kiri che esser fatto prigioniero».