Sono in molti a ritenere che gli artisti dello spettacolo siano dei privilegiati, gente poco seria, che vuole divertirsi piuttosto che lavorare, guadagnando soldi a sproposito e vivendo vite agiate.
Questa convinzione si è fatta strada soprattutto negli ultimi anni, che hanno visto affermarsi prodotti televisivi altamente commerciali, talent show e reality, in cui ciò che viene apprezzato dal pubblico è il fatto che un personaggio appaia sullo schermo di tutte le case, a prescindere dalle sue qualità espressive, delle sue competenze tecniche, dalla sua preparazione professionale, percependo in ogni caso lauti compensi.
Siamo lontani anni luce dall’epoca in cui il servizio pubblico produceva spettacoli e sceneggiati che attingevano le loro maestranze esclusivamente e rigorosamente a quei vivai di talenti che si erano formati in scuole di eccellenza o nella gavetta del Teatro, possedendo competenze di arti e mestieri che hanno reso famosa l’Italia per il suo patrimonio culturale, unico al mondo.
Oggi chiunque salga su un palcoscenico esiste solo in funzione della sua notorietà mediatica.
Questo è ciò che, a quanto pare, il pubblico contemporaneo chiede nel nostro Paese, al termine di un’operazione di “mutazione genetica dello spettatore” accuratamente predisposta e realizzata a pieno da oltre 30 anni di politica culturale targata Mediaset.
Non a caso, la società di proprietà di un editore dalla dubbia onestà che è stato anche Presidente del Consiglio per molti lustri. Un uomo che ha formato un pubblico azzerando con il suo potere politico ed economico la concorrenza, programmando gli spettatori di ogni età alla scelta di stili di vita e di prodotti culturali legati esclusivamente alla realizzazione di enormi proventi commerciali e pubblicitari.
Così i “consumatori” hanno sostituito i “cittadini”, e la maggioranza di loro ha perso completamente la capacità di informarsi, di cercare, di incuriosirsi per tutto ciò che è unico, speciale, non omologabile, eccellente. E confonde, ormai, l’affermazione di un prodotto televisivo o di un personaggio con il talento e la sua effettiva capacità espressiva. Predomina il bisogno di sentirsi tutti uguali, guardando gli stessi programmi, rincorrendo i personaggi, consumando gli stessi prodotti. Quelli della pubblicità.
Ma il pubblico, a quanto pare, vuole questo.
La politica, poi, si avvale anch’essa di questo meccanismo, manifestando da un lato la smania di apparire e “sfondare” sui media, dall’altro allestendo e finanziando spettacoli per le “masse” allo scopo di farsi propaganda, trascurando il fatto di propinare ai propri “sudditi” eventi che non sposteranno di una virgola le loro conoscenze, condannandoli, in pratica, a non sviluppare alcun gusto e a non poter accedere ad alcun tipo di cultura alternativa a quella che sembra prodotta dal “Grande Fratello” di orwelliana memoria.
Il pubblico vuole questo, al pubblico si dia quello che chiede. Come per Barabba.
Ovviamente, per chi è nato e cresciuto in un mondo diverso, sviluppando percorsi che avevano come riferimento la competenza professionale, lo studio e la preparazione, insieme al talento, la vita è diventata difficile, a volte impossibile. Gli artisti dello spettacolo, dagli attori, ai musicisti, ai danzatori, e quant’altro, vivono in un contesto che ha dimenticato completamente la loro funzione, rendendo impossibile la competizione in un “mercato” fatto di pubblico programmato per la TV.
E la cosa più incresciosa è che questi artisti, che magari hanno dedicato tutta la loro vita alla professione dello spettacolo, sono oggetto di una lenta, invisibile “epurazione”, attraverso la progressiva trasformazione delle stesse istituzioni, che un tempo svolgevano il ruolo di mecenati, in soggetti che si prefiggono l’unico scopo di sfruttare il potere mediatico di format e personaggi noti a fini sostanzialmente elettorali.
E poi il pubblico non vuole “annoiarsi”, il pubblico vuole ridere, non vuole pensare.
Così, si chiudono le orchestre, i teatrini, le compagnie teatrali, e si lascia che uomini e donne che hanno speso ogni energia per costruire le proprie competenze, siano travolti da questo “tsunami” culturale, perdendo il proprio lavoro e, con esso, la propria stessa fonte di vita.
Che cambino mestiere. Il pubblico vuole questo.
Al loro posto, spettacoli tutti uguali, massificanti, a volte socialmente dannosi.
Le conseguenze di tutto ciò sono, in qualche modo, paragonabili a quelle che si otterrebbero se, per esempio, in campo scientifico si chiamasse a dirigere il CNR o ad insegnare alla Normale di Pisa il conduttore di Voyager, Sandro Giacobbo, personaggio reso famoso anche dalle parodie di Crozza. Un risultato davvero “ai confini della realtà”.
Ma il pubblico vuole questo. O no?
Maria Giaquinto