Billy Wilder sarà ricordato nei manuali della cinematografia di tutti i tempi come l’incontrastato maestro della commedia. A lui si devono, infatti, titoli incastonati nella memoria del mondo di celluloide come “Sabrina”, “Quando la moglie è in vacanza, “A qualcuno piace caldo” e “L’appartamento”. Giusto per citarne alcuni. Il regista di origini austro-ungariche, durante la sua carriera, si è però misurato con la stessa identica maestria anche con altri generi. Come il noir e il melò.
Esempio folgorante del primo genere è “La fiamma del peccato” del 1944. Sceneggiato dallo stesso Wilder a quattro mani addirittura con Raymond Chandler e tratto da un romanzo di James M.Cain, il film fu il precursore del genere noir, quando il termine non era stato ancora inventato. Da togliere già il fiato, la voce fuori campo della sequenza iniziale: «Ho ucciso per denaro e per una donna e non ho preso il denaro e non ho preso la donna. Bell’affare!». A registrare al dittafono quest’amara confessione è l’assicuratore Walter Neff (Fred MacMurray), che sarà incastrato nel classico triangolo da due malvagi amanti: la sensuale e senza scrupoli Phyllis Dietrichson (una magistrale Barbara Stanwyck, qui cattivissima e gelida come il Circolo Polare quando confessa: «Non ti ho mai amato, né te né nessuno. Sono guasta dentro. Mi eri utile, solo questo eri per me, fino ad un minuto fa»), che lo convince a stipulare un’assicurazione sul suo testardo marito Barton (Edward G.Robinson). Quindi ad ammazzarlo per poi incassare il premio grazie alla clausola, chiamata “doppia indennità” (che sarebbe anche il titolo originale del romanzo e del film), cioè l’indennizzo raddoppiato in caso di decesso avvenuto in determinate circostanze.
Tre le curiosità che pochi conoscono di questo capolavoro: nella scena in cui Phyllis si nasconde dal marito dietro la porta dell’appartamento dell’assicuratore, Wilder (per una scelta registica, fantastica tra l’altro) mostra la porta aperta verso l’esterno, cosa che non accade mai in realtà; diverso era il finale scelto nella prima versione, e ritenuto meno incisivo di quello poi utilizzato (che non sveliamo, se per caso vi siete persi questo must) con Walter che è processato e condannato alla camera a gas; lo strano rapporto tra Walter e Barton si chiude con uno scambio di battute particolare: «Il colpevole che cercavi – dice il primo al secondo – ti stava troppo vicino, al di là della scrivania»; «Più vicino ancora, Walter», gli fa eco l’altro, e, ancora il primo: «I love you too (ti voglio bene anch’io)», tradotto nella versione italiana con un bizzarro «Sei un amico, tu». De gustibus censurae.
Mirabile e quasi raro esempio di cinema nel cinema è invece “Viale del tramonto” diretto nel 1950. Indimenticabile lo straordinario scambio di battute tra Joe Gillis, la voce narrante, che dice: «Norma Desmond, la famosa attrice del muto. Eravate grande» e la laconica risposta di lei: «Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo». In questa frase si racchiude tutto il dolore assordante della vita di Norma (inarrivabile Gloria Swanson, sulla quale cadde la scelta dopo i rifiuti di Mae West e Mary Pickford) e l’impietoso sguardo sul cinema da parte di Wilder. Impeccabile è già la sequenza iniziale: il corpo di Joe (interpretato dall’affascinante William Holden) che galleggia a faccia in giù in una piscina, mentre fuori campo udiamo la sua voce (espediente utilizzato anni dopo in “American Beauty” di Mendes) che dichiara di volerci raccontare tutta la verità, nient’altro che la verità. Una torbida storia tra lui, spiantato e arrampicatore da quattro soldi, e una diva del cinema muto, ormai sprofondata nel più squallido declino dopo l’arrivo del sonoro, che insegue l’impossibile sogno di realizzare il suo ultimo capolavoro. Tema questo che sarà ripreso, al maschile, quarantaquattro anni dopo dal genio Tim Burton in “Ed Wood” con Martin Landau nei dolorosi panni del divo al tramonto Bela Lugosi.
Due le curiosità da citare: la sequenza iniziale originale era ambientata in un obitorio, dove alcuni cadaveri coperti da lenzuoli chiacchieravano tra loro sulle circostanze che li avevano portati alla morte e l’ultimo di questi era proprio il personaggio interpretato da Holden; le troppe risate che la scena suscitò tra il pubblico dell’anteprima convinsero però il regista a tagliarla. In una sequenza, ambientata nel salotto di Norma Desmond, viene proiettato il film “Queen Kelly” diretto nel 1928 da von Stroheim e interpretato proprio dalla Swanson: uno dei film più maledetti di Hollywood, costato, allora, la bella cifra di 800 mila dollari e bloccato perché ritenuto troppo volgare e poco commerciale, dato l’incombere del sonoro. Quando si dice perversione d’autore.