L’incipit è da brividi: «La prima volta che ho assaggiato lo sperma avevo sette anni. Sono stato violentato da un prete». Bastano queste due frasi, sussurrate in confessionale da uno sconosciuto che minaccia di uccidere chi lo ascolta, a far precipitare (e non è solo un eufemismo) lo spettatore in una vicenda che non dimenticherà facilmente.
Parliamo di “Calvario” un film scritto e diretto dal regista irlandese John Michael McDonagh e uscito in Italia a metà maggio e, tanto per cambiare, mal distribuito. Già perché ormai nella nostra penisola sembra sia una prassi che i bei film, quelli che hanno “da dire” qualcosa, siano puntualmente penalizzati da uscite (quando escono) a fine stagione (che tuffo al cuore vedere l’unico cinema della città in cui vive chi scrive, con le serrande abbassate la terza settimana di maggio). Oppure, in questo caso specifico, c’è lo zampino di qualche “potere forte”.
Sì perché il film è ambientato nella “cattolicissima e verde Irlanda”, che tra l’altro ha da poco sdoganato i matrimoni omosessuali (brucerà all’inferno!) e il protagonista è un prete, padre James (stratosferica interpretazione di Brendan Gleeson). Ebbene il nostro parroco (con un passato da alcolizzato, giusto per non farci mancare nulla), sarà alle prese con una comunità di veri e propri “dannati”: un uomo violentato da piccolo da un “pastore del Signore” (il proprietario delle devastanti frasi iniziali, che scopriremo in volto solo alla fine della pellicola), una moglie adultera (Orla O’Rourke) con il vizietto del “felching” (e come suggerisce il protagonista al suo “collega idiote”, interpretato da David Wilmot, «Meglio non entrare nei dettagli»), un ispettore di polizia omosessuale (Gary Lydon), l’uomo più ricco del luogo (Dylan Moran) che è anche il più misantropo, un dottore sadico (Jack Gillen) e la stessa figlia (un’intensa e bella Kelly Reilly) di padre James (ebbene sì, lui era in precedenza sposato) con la mania a tentare il suicidio per via del cattivo rapporto con gli uomini (e qui s’intravede l’unica “leggerezza” della sceneggiatura, prevedibile il rapporto odio-amore con suo padre). Una comunità sicuramente sopra le righe.
Insomma una “summa” dei gironi danteschi dove il colore sullo sfondo è il verde brillante dei paesaggi e le innumerevoli sfumature di blu del mare, sempre in tempesta (quasi a porre l’accento sui tumulti dell’animo di tutti quanti) e quelle del cielo, splendidamente fotografati dalla coppia Larry Smith e Chris Gill. Un inferno fatto di derelitti, rozzi e degenerati, dove nessuno sembra possa salvarsi, dominato com’è da un cinismo nerissimo, marchio di fabbrica del regista, evidentemente, ma mai lasciato al caso.
Come lo stesso titolo, del resto. Il Calvario è la meta finale di Gesù durante quella che ogni cattolico conosce come “Via Crucis”. E il “calvario” (inteso come aggettivo) è quello che attende il protagonista nel cammino fatto d’incontri e confessioni lungo i suoi ultimi sette giorni che lo porteranno all’appuntamento con lo sconosciuto e con la morte. Sconosciuto solo allo spettatore, perché il prete sa fin dall’inizio di chi si tratta, ma non lo rivelerà a nessuno, e nessuno potrà quindi salvarlo. Una sorta d’espiazione del torbido pastore per i peccati delle sue ancor più torbide pecorelle? Potrebbe essere questa una delle chiavi di lettura del film, come anche una “denuncia” contro la Chiesa, tanto urgente quanto intrisa di un forte senso di Fede, più nell’uomo che in Dio. Un film retto da una magistrale sceneggiatura potente e “prepotente” che non fa sconti a nessuno. I bigotti sono avvisati.