Premessa d’obbligo: amiamo Woody Allen. Incondizionatamente. Lo amiamo talmente tanto da classificare “carini” i suoi film effettivamente mediocri: è come ammettere i limiti della propria madre o del proprio padre. Amor vincit omnia. Non è il caso, però, di quest’ultimo piccolo gioiello, “Cafè Society”, pellicola numero quarantasette del cineasta newyorkese, la sua prima girata in digitale, presentata a Cannes in primavera e che uscita da pochi giorni nelle sale italiane, sta riscuotendo il solito buon successo.
Il titolo richiama un vecchio film girato nel 1939 da Edward H.Griffith e non solo per quello. L’ambiente della “società dei Cafè” è quello degli anni ’30 appunto, tanto caro ad Allen (non a caso vi sono ambientati le sue nostalgiche commedie migliori, da “Radio Days” a “La maledizione dello scorpione di giada”, da “Pallottole su Broadway” a “La rosa purpurea del Cairo”, solo per citarne alcune). Protagonista è l’ennesimo alter ego del regista, Bobby Dorfman, magnificamente interpretato da Jesse “Zuckemberg” Eisemberg e sempre più bravo: l’antieroe ebreo, sfigato e impacciato con le donne («Ti do qualche numero – gli dice suo fratello Ben al telefono – Tony White, Klondike, 0079. Conosce un sacco di ragazze. So che sei timido, ma non c’è bisogno di parlare. Basta dare 20 dollari»), che avrà comunque il suo bel riscatto finale a dimostrazione di vestire i panni del perdente per finta.
Bobby decide di andare a vivere nella mitica Hollywood, lavorando come tuttofare per lo zio (Steve Carrel in un ruolo più maturo), ricco e famoso produttore cinematografico. Qui s’innamora di Vonnie (bellissima e credibilissima Kristen Stewart), segretaria e amante dello stesso zio. Quando quest’ultima sceglie il denaro all’amore, lo sfortunato Bobby ritorna a New York e si mette a lavorare con suo fratello Ben, spietato gangster, proprietario del “Cafè Society”, un night club. Qui avviene l’incontro con Veronica, una donna stupenda (l’attrice Blake Lively, di una bellezza folgorante), che diventerà sua moglie. Ma un giorno, non tanto per caso, nel locale, divenuto un punto di riferimento per l’alta società, arriva Vonnie, il primo amore e…
Curato nei minimi particolari, dalla ricostruzione storica alle raffinate ambientazioni esterne e interne (del sempre fedelissimo Santo Loquasto), fino ai bellissimi costumi il film è tecnicamente perfetto, dominato da una fotografia meravigliosa firmata, non a caso, dal nostro premio Oscar Vittorio Storaro. Sceneggiatura impeccabile, divertente e spumeggiante, sempre inzuppata nel tipico yiddish humor alleniano: «La vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo», chiosa il protagonista nel trailer ufficiale italiano; e ancora, sua madre Rose, durante uno dei gustosi siparietti familiari con suo marito: «Se la religione ebraica avesse inventato l’aldilà avrebbe acuto più clienti». Si ride spesso durante novantasei minuti di film ma attenzione, il finale agrodolce che fa tanto melò è dietro l’angolo, regalandoci un’amara riflessione sulla negazione del piacere e sui sogni irraggiungibili.