Un giornalista può sostenere una attività aziendale?
Se, da professionisti, avessimo fatto questo domanda una decina di anni fa avremmo pagato duramente la nostra impertinenza.
Nella carta dei doveri deontologici sottoscritta dall’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa (il sindacato unico) nel 1993 era stata (tardivamente) fissata per iscritto una regola più o meno rispettata nei secoli precedenti: “Il giornalista deve sempre garantire una informazione corretta ben distinta dal messaggio pubblicitario; inoltre non deve prestare il nome, la voce, l’immagine per iniziative pubblicitarie incompatibili con la tutela dell’autonomia professionale”.
Come dire, un giornalista non deve azzardarsi a recitare in uno spot commerciale con Belen o Del Piero o cose simili. Al massimo, può diventare un testimonial di campagne pubblicitarie volte a fini sociali, umanitari, culturali, religiosi, artistici, sindacali. L’importante è che il giornalista non prenda soldi, se vuole pubblicizzare un prodotto diverso da un articolo o da un reportage.
Orbene, facendo finta di dimenticare quella percentuale di giornalisti corrotti che si sono spesso fatti pagare per scrivere, generalmente la regola morale è sempre stata rispettata, ma l’avvento di internet ha stravolto più cose:
1) Intanto, i nativi digitali non comprano più i giornali cartacei per informarsi, per cui più aumentano i navigatori nel World Wide Web, più ingigantisce la crisi (ormai fatale) della stampa, più aumentano i licenziati nelle redazioni.
2) Le aziende che prima dovevano comprare le pagine sui giornali o mendicare piccoli articoli redazionali, per farsi conoscere meglio dal grande pubblico, ormai hanno cambiato la propria comunicazione.
Da tempo le aziende più innovative gestiscono propri spazi digitali in rete; così riescono più facilmente a sollecitare il desiderio dei consumatori verso i propri prodotti con un nuovo tipo di marketing, diremmo autogestito.
Non è un lavoro complicato; anche nel WWW un impulso piacevole verso una cosa da comprare (chiamiamola ‘pubblicità’ per far prima) lo si provoca con immagini e testi originali. Nel mercato puro vince chi ha fantasia, tempestività, coraggio. Inoltre, una parte dei programmisti-registi e dei giornalisti rimasti disoccupati per colpa della rete stanno riottenendo lavoro, grazie alla rete.
E ora diciamo due maleparole anglo-americane che esprimono le nuove strategie di vendita:
“Brand Journalism” e “Storytelling”
Il brand journalism è il giornalismo d’impresa, ovvero una concreta opportunità di lavoro per i professionisti della comunicazione che vivevano di carità. I fortunati giornalisti che vengono contrattualizzati non devono più andare a caccia di notizie, perché le hanno a disposizione stando comodamente seduti in azienda. Non vengono pagati per niente, semplicemente usano il vecchio talento per intrattenere il pubblico di riferimento dell’azienda o intercettarne quello nuovo. Non si tradiscono i canoni del giornalismo classico, né i redattori devono trasformarsi in attori di Carosello. I giornalisti usano la vecchia arte della persuasione con le parole per divulgare un’attività che produce ricchezza. Non c’è niente di immorale. Piuttosto, bisogna saperlo fare perché in rete la concorrenza è enorme, ma basta studiare un poco di filosofia sofistica e qualche regola di grammatica italiana.
Lo storytelling è l’atto, o meglio, l’arte del narrare la vita di un’azienda e si fa con le stesse tecniche adottate da Omero, Marcel Proust e Vittorio Sgarbi.
Qui, per chi vuole imparare un mestiere nuovo, è bene affermare un principio molto veritiero. “Non c’è strumento di marketing più forte di una narrazione”. Se la credibilità è l’obiettivo della comunicazione tradizionale, saper influenzare i meccanismi emotivi con un intrattenimento narrativo è un’arte.
I target per questi artisti a parole sono due: si può narrare l’azienda a chi ci lavora dentro, per rafforzare i loro legami di solidarietà e reciprocità. Oppure, si deve presentare l’azienda agli estranei, affinché possano conoscerla meglio e consumarne i prodotti. “Brand Journalism” e “Storytelling” esigono professionisti della comunicazione e i giornalisti sono sempre stati maestri della sintesi e della prosa leggera. Dunque buon lavoro a tutti quelli che si impegnano in questi nuovi lavori.
Ma così non si rischia di fare pubblicità invece che informazione?
Polemiche vuote. Il giornalista autentico sa che deve tendere alla verità, per cui certamente non userà menzogne ne avrà bisogno di jingle, slogan e tanti altri falsi espedienti retorici. Eppoi, anche se Bruno Vespa impazzisse e si mettesse a vendere i mobili come Aiazzone chi avrebbe i rischi maggiori, i consumatori o lui stesso?