Drammaturgia Riccardo Spagnulo, con Vito Signorile e Mary Dipace. Luci di Vincent Longuemare. Scene di Michele Iannone. Visto il 12 ottobre 2014.
(di Francesco Monteleone)
Quando si presenta nel foyer per accogliere i consensi o i dissensi dopo la recita, Vito Signorile ha già tolto gli indumenti cenciosi di Charles Bukowski; eppure risulta ancora repellente e le signore non facilmente si avvicinano a lui per stringergli la mano. C’è un motivo: l’ultimo sbalestrata scena della pièce sul più lercio poeta della beat generation è una masturbazione tanto veritiera che è meglio cautelarsi nell’igiene. Così quella reazione sincera del pubblico è forse l’effetto artistico più indicativo di quest’opera teatrale dedicata a uno scrittore mitico, triviale, sublime che ci vorrebbero cento pagine per descriverlo decentemente. “Poesia è solo ciò che non può essere detto in altro modo” suggeriva André du Bouchet. Il guaio è che per far funzionare la poesia di Bukowski bisogna essere Bukowski; non è ancora nato nel mondo un attore che possa concedercela totalmente, perché egli dovrebbe annullare i propri tabù, scristianizzarsi, mandare in disuso il corpo, rimanere misero con le tasche piene di soldi, bere alcolici fino a farli esondare dalle vene e soprattutto conoscere come si produce l’orgasmo nelle mente, titillandola con le parole. Charles fu inimitabile: diventò ‘ricco, scrivendo porcate’, ma fece anche di più: dimostrò con un grande talento letterario che nell’intimo facciamo schifo, come lui o più di lui. Tutte queste cose Vito Signorile le sapeva e ciò nonostante si è lanciato all’assalto di un personaggio poco raccomandabile per un attore di tradizione: superVito ha sciupato la linea più di quanto fa abitualmente con i suoi ragù, ha portato in rimessaggio gli agonizzanti genitali, ha acutizzato la presbiopia, infine ha imprigionato la sua medicamentosa allegria plebea nel cupo rancore di un genio spudorato che volle il sepolcro tra le gambe delle donne.
La prima scena dell’opera prima firmata da Licia Lanera è scioccante. Un cadavere è steso supino sul letto dell’obitorio. L’alcol, la tubercolosi, infine la leucemia hanno ruminato lo spirito di Bukowski (classe 1920). Deduciamo che corre l’anno 1994. Un’infermiera maneggia sul corpo. Mancano i parenti e il becchino. Oltre il corridoio c’è l’assedio dei giornalisti. Ma Charles ‘resuscita’. A piedi nudi vorrebbe dare stivalate alla scioccata assistente, impreca: “Sono già all’inferno? La morte fa schifo!” Da vivo o da morto, un artista talentuoso è colui che suscita il numero maggiore di emozioni primarie: Vitowski sa generare la ‘sorpresa’ (seminudo sembra un immenso provolone scaduto), la ‘vergogna’ (declama il turpiloquio come se pregasse), ma è a noi filosofi sparsi in tribuna che scatena ‘l’interesse’ più grande per aver recuperato una robusta questione posta da San Paolo, mai risolta: “come risorgono i morti? O meglio: Con quale corpo ritornano?” (Prima lettera ai Corinti, 15, 35). Ora pensiamo che i defunti, nel momento della resurrezione, saremo com’eravamo quando abbiamo smesso di cibarci della vita. Buono a sapersi, ma ora non possiamo approfondire.
La regista Licia Lanera ha certamente fatto una scelta coraggiosa, dando un calcio in culo a un vecchio attore ai limiti della pensione creativa per trasformarlo in un tirocinante delle perversioni. La drammaturgia di Riccardo Spagnulo è abbastanza sufficiente, più attenta alla biografia di Bukowski che alle avventure di Henry Chinaski (l’alter ego utilizzato nei libri). A nostro discutibile avviso nel testo recitato c’è un esagerato uso dell’imperfetto, tempo verbale della narrazione più adatto ai romanzi, ma senza reviviscenze nella prosa teatrale. Invece le arguzie più curiose sono contenuto nei monologhi su Dio, sull’identità del poeta, sull’utilità dell’arte, sul lavoro (cos’è?). La scenografia, conforme al fine, è a basso costo. I costumi sono quattro stracci indossati dal poeta e un grembiule ospedaliero. Le luci si muovono bene attorno ai due personaggi. Un unico sopportabile tormentone: la ricerca di una tronchesina per accorciare le unghie dei piedi. Il sapore più acre è in una ipotassi: “Dormo sull’asfalto e le stelle sembrano più luminose…” (citiamo a memoria, perdonateci). Dopodiché il pubblico deve dire mille ‘grazie’ a Mary Dipace (l’infermiera), un’attrice col fisico possente e agile simile a quello di una tennista bravissima nella ‘volata’, cioè capace di opporre la sua voce a quella del protagonista, senza imprimerle un’inutile energia. Il suo nudo integrale, seppure sfuocato nelle ombre, fa spettacolo, è la ‘gioia’ che andavamo cercando dopo tanta ‘angoscia’. Vecchio Signorile, ora dicci se tua moglie ti sta perdonando quel contatto ravvicinato con una giovane donna che vanta la pienezza dell’eros. Tu non sei mai stato un lussurioso come Bukowski, anzi ci sembri fedele e pantofolaio; tanto sesso incrollabile e sovrabbondante potrebbe farti male se continui a replicare questa applauditissima opera teatrale.
C’era una volta un uomo molto più colto di te e Bukowski, messi insieme. Si chiamava Cioran e seppe scrivere: “La rinuncia e la solitudine non ci faranno guadagnare l’eternità”. Sarà contento di vederti, dall’alto dell’inferno. Ottimo Vito, con questa tua straziante interpretazione ci esorti a vivere più intensamente l’amore, alla maniera di Buk. In un libro indimenticabile, “On the road”, Jack Kerouac scrisse che ‘Beat’ significa ‘beato’. Siamo d’accordo. E questa volta il Nuovo Abeliano si è rivelato la chiesa dove abbiamo confessato le nostre trasgressioni