(di Carmela Moretii)
Un documentario, se fatto “come Dio comanda”, è un buon modo per ricordare. Termine, quest’ultimo, da intendere nel suo significato etimologico di “ripercorrere col cuore”, e non con l’aridità della mente, gli eventi e i personaggi. Nei giorni scorsi, il film documentario di Asif Kapadia su Ayrton Senna (2010) ha riproposto in televisione una delle personalità più amate dei primi anni ’90, nel ventennale della sua morte. Un ottimo mélange di immagini e telecronache che ha il merito di riuscire a far amare il pilota brasiliano anche a chi non ha vissuto quel periodo, tanto è in grado di restituirne i pensieri e le inquietudini più profonde.
Ayrton è nato nel 1960 in una famiglia benestante di San Paolo e giovanissimo si è ritrovato a disputare i campionati internazionali di go-kart. Poi è approdato in Formula 1, dove ha subito dato prova di un indiscusso talento: in pochi anni ha debuttato con la Toleman, poi è passato alla Lotus e nel 1988 è entrato a far parte della squadra della ben più prestigiosa McLaren. Ma nella F1 non tutti l’amavano, soprattutto per quel suo temperamento risoluto che lo portava a fiutare e a osteggiare presunti “inganni”. Significativi, a tal proposito, sono gli alterchi con il presidente della FIA Jean-Marie Balestre e la rivalità insanabile con il compagno di squadra e “calcolatore di punteggi” Alain Prost, momenti magistralmente riproposti nel film di Kapadia.
Ayrton, però, aveva un carisma particolare, quel quid in più che a ogni Gran Premio conquistava folle di tifosi: riusciva a percorrere un circuito come un’aquila squarcia il cielo, con velocità, eleganza e autorevolezza. Ma era sotto piogge torrenziali che raggiungeva l’exploit e con la sua monoposto pareva far miracoli. Sicuramente, delle sue 41 vittorie, la più importante per il pilota è stata quella al Gran Premio del Brasile del 1991: “Un’altra curva e Senna taglierà il traguardo. Una stupenda vittoria”. Estremamente religioso e fiducioso in Dio, in quella giornata si sarà sentito come un angelo lucente, inviato a bordo di una monoposto per riscattare dinanzi al mondo intero il suo popolo martoriato. E fu così per il Brasile, che in quella vittoria ritrovò un motivo di vera gioia.
Poi, arrivarono il passaggio alla Williams e il Campionato Mondiale del 1994, con quello “strano” regolamento che d’improvviso vietò tutti i dispositivi elettronici che rendevano più sicure le vetture. A Imola, l’auto di Senna era instabile, ruotava su se stessa, destava serie preoccupazioni; e dopo l’incidente mortale di Roland Ratzenberger nel giorno prima della gara, le sue inquietudini s’accrebbero incredibilmente. A tal proposito, le immagini raccolte nel documentario sanno bene restituire tutta la tensione del pilota brasiliano, con il suo volto ch’appare visibilmente triste e provato.
Ed ecco il 1 maggio 1994. Di prima mattina, Ayrton Senna sfogliò la Bibbia e lesse un passo: “Il più grande dono che Dio può fare è Dio stesso”. Poi, si schiantò alla curva del Tamburello e volò via a soli 34 anni, facendo piangere il mondo intero –e chissà se sapeva di essere così tanto amato!
Dopo quel giorno, gli ingegneri lavorarono per migliorare la sicurezza in F1 e da allora non si sono più registrati incidenti mortali.