Leggere “Il tempo migliore della nostra vita”, l’ultimo romanzo di Antonio Scurati porta inevitabilmente a leggere o a rileggere “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg. Cos’hanno in comune i due tomi? A parte il premio Strega, Leone Ginzburg, naturalmente.
Il romanzo del talento napoletano, di cui abbiamo amato “Il sopravvissuto” (Premio Campiello 2005) e il suo folgorante incipit, ruota intorno alla figura del letterato antifascista Leone Ginzburg e alla sua vita, intrecciandola con quella “più normale” di “famiglie normali” come quella dei suoi nonni e dunque, della sua. La Storia che si mescola con le storie, tutto all’insegna del tempo e del suo senso più intimo e più vero.
Tutto parte da un “no”. Quello pronunciato da Ginzburg, appunto, l’otto gennaio 1934: ha solo venticinque anni, Leone e attraverso quella sillaba firma la sua fine. «Illustre professore, ricevo la circolare del Magnifico Rettore, in data 3 gennaio, che mi invita a prestare giuramento, la mattina del 9 corrente alle ore 11, con la formula stabilita dal Testo Unico delle leggi sull’Istruzione Superiore. Ho rinunciato da un certo tempo, come Ella ben sa, a percorrere la carriera universitaria, e desidero che al mio disinteressato insegnamento non siano poste condizioni, se non tecniche o scientifiche. Non intendo perciò prestare giuramento». È questo il messaggio che il giovanissimo docente di letteratura russa indirizzerà al preside della facoltà di lettere Ferdinando Neri. Un rifiuto, quello di giurare fedeltà al Re e al regime fascista, pregno di senso dell’onore. E per quello stesso bellissimo sentimento Ginzburg perderà la cattedra e si vedrà negate pensione e indennizzo. Su milletrecento professori, saranno solo in tredici a rifiutare e tra questi, Giuseppe Levi, di cui sposerà la figlia Natalia. Saranno tutti espulsi.
Il racconto di Scurati è quasi giornalistico, degno di un cronachista, ma non per questo meno appassionante. Una scelta precisa quella dell’autore che scrive: «Non mi abbandonerò alla speculazione, non mi concederò nessuna introspezione, nessuna congettura sul suo stato d’animo. Noi che abbiamo avuto la sorte di nascere in un cantuccio di mondo agiato e protetto, noi non lo sappiamo cosa si prova in quei momenti, probabilmente non lo sapremo mai».
La narrazione ci porterà oltre che a conoscere il destino di Ginzburg che seppur confinato collabora con la Casa Editrice Giulio Einaudi, occupandosi di traduzioni, prefazioni e correzioni di bozze. Fino al suo arresto nel ’43 da parte della polizia nazista. E conosceremo anche il lato più intimo del letterato, di uomo, di marito e di padre di famiglia.
La grandezza di Scurati non è solo quella di esser riuscito a far sgorgare dalle pagine l’odore della carta stampata a farci respirare tanta letteratura, ma anche quella di raccontarci, nel modo più semplice possibile la bellezza delle persone semplici vissute in concomitanza dei sconvolgimenti di quegli anni, evitando la trappola di enfatiche autocelebrazioni, poiché si tratta della sua famiglia. Anni bui, fatti di violenza e di guerra, ma anche di speranza nel futuro, attraverso l’azione costante di chi fece la Resistenza e portò l’intero paese alla Liberazione.
Scurati conclude il suo bellissimo romanzo così: «Noi che viviamo in questo tempo qui, proprio noi siamo l’avvenire facile e lieto in cui Natalia Ginzburg aveva avuto fede e che l’aveva amaramente illusa. Per quanto deludenti, indegni, siamo noi quell’avvenire». Siamo noi “il tempo migliore della nostra vita”.
Ecco che non si può prescindere nella lettura o nella rilettura di “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg, il libro più rappresentativo dell’autrice triestina di origini ebraiche. Proprio perché narra degli stessi anni protagonisti del romanzo di Scurati: dai ’30 ai ’50. Un racconto disarmante per il suo essere “vero”, che vede lei stessa come voce narrante. La storia, quella della sua famiglia (il padre Giuseppe, la madre Lidia e i quattro fratelli), ruota intorno al linguaggio, ai detti e alle abitudine di quest’ultima. E a ben pensarci, ciascuna famiglia ne ha di suoi. Tra “potacci”, “sbrodeghezzi” e “negrigure”, il lettore segue le dinamiche del nucleo familiare Levi, fino a diventarne parte integrante. Una famiglia numerosa che vive in una casa molto frequentata: dalla cameriera Natalina alla sarta, dagli amici di scuola dei ragazzi ai colleghi del capofamiglia. Tutti nomi, quest’ultimi, dell’intellighenzia torinese: Vittorio Foa, Filippo Turati, Cesare Pavese, Felice Balbo, Eugenio Montale (compagno della zia Drusilla, che «rompeva sempre gli occhiali») e tanti altri. Tutti citati coi propri nomi di battesimo, tanto che Asor Rosa tacciò la Ginzburg di “snobismo”.
Romanzo di memorie storiche e non solo. Sullo sfondo c’è la Storia, certo, ma è quella privata che prende il sopravvento, grazie alla semplicità (altro punto di contatto con Scurati) e alla spontaneità della scrittura. E, nel caso della prigionia del padre, della fuga dei fratelli e della morte del primo marito (Leone Ginzburg), anche con tanto, tantissimo pudore.
Da non confondere con l’autobiografia, o come la stessa autrice dichiarò “di semplice autobiografia”, pur trasudando di ricordi intimi. Il romanzo di Natalia Ginzburg vuol dirci altro: la nostra famiglia è lo scrigno prezioso di ciò che siamo stati e che ormai non siamo più. Un pensiero nostalgico, probabilmente, ma di una verità assoluta.