(di Francesco Monteleone)
Con Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane, Barbora Bobulova, Anna Ferruzzo. Drammatico, durata 103 min. – Italia, Francia 2014.
Ricordate il tesoretto di Aristotele? Sono sei gli elementi costitutivi di ogni tragedia: la favola, i caratteri, il linguaggio, il pensiero, lo spettacolo e la composizione musicale…il più importante di questi elementi è la composizione dei casi (cioè la favola), in seconda linea vengono i caratteri…
Dopo aver visto l’esemplare film di Munzi ci è venuta la voglia di rileggere per intero uno dei libri più belli mai scritti da un filosofo, ovvero ‘La poetica’ (occorrono 3 notti). In esso sono descritti i caratteri essenziali della commedia e della tragedia. Bene, se riguardate attentamente ‘Anime nere’ vi accorgerete che quegli elementi aristotelici sono stati sviluppati con un talento eccezionale (soprattutto i caratteri e il linguaggio). Ragion per cui non abbiate dubbi; a cinema potrete riprovare il pathos fecondo che ebbero le grandi rappresentazioni di Eschilo, Euripide, Accio, Seneca ecc.
Il film inizia nella misericordiosa Milano, espugnata dalle organizzazioni criminali, ma si sviluppa in Calabria, nell’Aspromonte, dove i giovani sanguigni nascono in case senza intonaco, all’interno di paesi sventrati, anzi abbandonati da uno Stato che è pieno di buchi morali. I calabresi di un certo tipo devono saper allevare e sgozzare il bestiame, devono essere abili nel maneggio delle armi e sputare per terra al passaggio dei Carabinieri. La storia, sceneggiata come il miglior thriller americano, è una di quelle che si leggono sui giornali nazionali, nelle cronache della malavita regionale: i calabresi trasferiti al nord sono stati capaci di organizzare giganteschi traffici illeciti. Quegli stessi calabresi, con la loro inattaccabile alterigia, non dimenticano i torti subìti nel passato e, siccome non cambieranno mai, continuano a mostrarsi retrivi e vendicativi. In Calabria c’è chi è ossequente alle legge del più forte e c’è chi dimostra di essere il più forte. Si respira nell’aria la divisione sociale tra uomini e sopraffattori. D’altronde, molto più dell’amore, l’odio è piacevole perché è infallibile. Basta poco per farlo nascere e crescere. Esso ti stabilizza ferocemente, sminuendo il precariato del dubbio. L’odio organizza le forze verso un’unica finalità: accumulare potere, per distruggere gli avversari. Francesco Munzi collauda una cupa similitudine: abbracciare la vita monastica o la n’drangheta esige gli stessi comportamenti: vestizione dell’abito, solenne professione dei voti, un pochino di fede religiosa, rispetto della gerarchia. E i traditori dei patti fanno la fine di Giuda.
I personaggi di questo film sono perfetti, realistici, mai rivestiti di fiction: allegri, spregiudicati, familisti, tradizionali, generosi, ma quando arriva il repulisti altrettanto capaci di ripopolare i cimiteri con cadaveri propri o altrui. Il linguaggio mafioso ha una mirabile sintassi propria, corta e violentemente poetica: espressioni fissate dai padrini storici, toni e interiezioni perfezionate dall’uso che significano ‘rispetto’, ‘sospetto’, ‘decenza’, ‘convenienza’, ‘viltà’… Le donne sono anime secche sulle quali ciclicamente lacrime risorgive compaiono dai sotterranei del cuore; esse vivono in stanze piastrellate di santi e di morti, non sono mai sotto accusa, devono comprendere e conservare i fatti e le squallide conseguenze, come secretaire senza stile.
La regia di questo film è unica. Non ne esistevano altre possibili. Non si poteva esagerare né verso la violenza, né verso la decenza. Complimenti anche allo sceneggiatore che ha reso fluido il lentissimo tempo della vendetta. Nessun saggio di sociologia avrebbe saputo far meglio di questo erudito capolavoro.